(Articolo sui conflitti nel mondo da VicenzaPiù Viva n. 6, sul web per gli abbonati tutti i numeri, ndr). La guerra è sempre al centro dell’attenzione dei media, ma sembra che ormai sia diventata normalità.
Il 13 settembre dello scorso anno, Antonio Guterres, Segretario Generale dell’ONU, ha lanciato un messaggio intitolato “Per le persone. Per il pianeta. Impegniamoci tutti per la pace”, sottolineando che la pace è minacciata globalmente. Ad oggi siamo tutti interconnessi, che sia con gli smartphone ed i social media, ma anche attraverso l’economia globale. Basti guardare come le sanzioni alla Russia abbiano portato gli Stati Uniti sul trono degli esportatori di gas del 2023.
Proviamo, quindi, a ricordare una parte delle aree in cui si combatte e si muore: di tante altre è anche difficile trovare traccia eppure vi muoiono e rimangono feriti milioni di persone in un panorama di distruzioni che sono almeno paragonabili a quelle di cui ora scriveremo senza dimenticare tutte quelle in cui i venti di guerra soffiano vicini, una su tutte quella della Cina e di Taiwan.
Ucraina e Russia, Israele e Palestina: i nostri media concentrati su questi conflitti
L’attacco terroristico di Hamas ad Israele e la sua cruenta reazione ha attirato tutta l’attenzione mediatica, lasciando in penombra la guerra russa-ucraina. In un’intervista
televisiva rilasciata ad Ars, il Segretario Generale della Nato, Jens Stoltenberg ha dichiarato che l’Ucraina si trova in una situazione critica. L’offensiva di Zelensky non ha portato i risultati sperati, lasciando in stallo il fronte, mentre le tensioni interne aumentano. Di fatto, con la strategia fallita e le critiche ricevute dal Sindaco di Kiev, il capo di stato maggiore ucraino, suo avversario politico, il generale Valery Zaluzhny, sta guadagnando popolarità nella lotta per il controllo del Paese.
Europa
In gran parte dell’Europa i livelli di allerta sono aumentati in risposta all’attentato di Bruxelles del 16 ottobre che ha causato la morte di 2 svedesi. Inoltre, come affermato dal primo ministro francese Elisabeth Borne, anche la guerra tra Hamas e Israele sta causando preoccupazione nel vecchio continente.
Di fatto, durante le feste la soglia di allerta del sistema Vigipirate è stata aumentata al massimo. Il 19 dicembre, inoltre, l’intelligence di Ankara ha arrestato il tesoriere e capo amministrazione dell’Isis Huzeyfe Al Muri.
Kosovo
Anche se con il nuovo anno la Serbia ha iniziato a riconoscere le targhe del Kosovo, tra i due Paesi non scorre ancora buon sangue. Di fatto, Belgrado non riconosce l’indipendenza dei Kosovari, dichiarata nel 2008, insieme ad altri 4 Paesi europei: Spagna, Grecia, Slovacchia e Cipro.
Nonostante gli Stati Uniti e l’Europa stiano facendo da mediatori, i rapporti rimangono tesi. Gli scontri sono iniziati lo scorso maggio quando nel nord, a prevalenza serba, sono stati eletti sindaci albanesi, causando così le proteste dei cittadini. Durante le manifestazioni però sono rimasti feriti circa 50 cittadini ed oltre 30 militari Nato, di cui 14 italiani. Inoltre, la Kfor, la forza Nato in Kosovo, ha riportato la notizia di una sparatoria il 26 dicembre, durante la quale fortunatamente non ci sono stati feriti. I colpi sarebbero stati esplosi quando la polizia kosovara avrebbe tentato di togliere delle barriere posizionate dai serbi.
Africa
Libia
La Libia resta divisa sia dal punto di vista politico che territoriale, con due governi distinti e scontri sporadici su scala limitata. Attualmente i due contendenti sono Abdul Hamid Dbeibah, primo ministro riconosciuto internazionalmente, e Khalifa Haftar che governa i territori ad est in modo autoritario.
La famiglia Dbeibah è accusata di frode e corruzione perché Abdul e suo cugino Ali avevano incarichi pubblici durante il governo di Gheddafi. Inoltre, nel 2021 Ali è stato uno dei membri del Foro di dialogo politico libico, organo che ha eletto Abdul come Primo ministro.
Haftar invece ha partecipato al golpe che ha portato Gheddafi al potere nel 1969. Dopo essere stato rinnegato dal Colonnello, ha iniziato a collaborare con la CIA per destabilizzare il regime. Ritornò in patria proprio per combattere e nel novembre 2011 fu nominato comandante capo del nuovo Esercito libico. Nel 2014 provò a rovesciare il governo, causando una guerra civile.
I due schieramenti si basano principalmente su reti di forze armate e milizie organizzate a livello locale e regionale, mantenendo nel contempo intricate alleanze internazionali che hanno contribuito alla loro permanenza nel corso del tempo nel contesto libico. Il governo con sede a Tripoli riceve supporto militare dalla Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, mentre la
Russia, l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti sono i principali sostenitori di Haftar. Oltre al conflitto interno, nella notte tra il 10 e l’11 settembre si è verificata la rottura di due dighe, creando un’alluvione che ha colpito Derna, città di 100mila abitanti.
Regione del Sahel
Dal 2020 ad oggi il continente africano è stato sconvolto dai colpi di stato supportati dall’esercito, soprattutto nella zona del Sahel. Di fatto, le ex colonie francesi hanno optato per il golpe come tentativo per cambiare la propria situazione economica. Nonostante nel 2014 si fosse creata l’alleanza G5 del Sahel, supportata economicamente dall’Europa, i Paesi membri non hanno percepito miglioramenti, fino a che nel 2022, alcuni Paesi dell’alleanza si opposero alla presidenza del Mali per i suoi due colpi di stato. Per ciò le autorità maliane decisero di ritirarsi dai G5S, seguito a distanza di un anno da Burkina Faso e Niger. Ad oggi i 3 Stati hanno formato una nuova unione chiamata «Alleanza degli Stati del Sahel» che si contrappone all’Ecowas e all’attuale G2S.
Sudan
Però non tutti i golpe si concludono in breve tempo, di fatto, in Sudan si sta combattendo una guerra civile che ha causato circa 12 mila vittime e più di 6 milioni di sfollati. Il conflitto è iniziato da aprile 2023, ma lo si poteva prevedere quando nel 2011, con l’indipendenza del Sudan del Sud, lo Stato veniva privato del 75% delle risorse petrolifere.
Già nel 2019 iniziarono le proteste contro il dittatore Omar Al-Bashir che fu poi deposto dal capo delle «Rapid Support Force» (RSF) Hemedti, in collaborazione con l’esercito sotto il controllo di Al-Burhan. I due collaborarono al governo fino a dicembre 2022, quando, promettendo delle elezioni democratiche, il capo dell’esercito nazionale pose il vincolo che l’RSF dovevano essere integrate nell’esercito.
Così facendo Hemedti, tentò un nuovo golpe il 15 aprile 2023 che però non portò al risultato sperato, trasformando la Capitale nel nuovo campo di battaglia tra le due milizie.
Il Paese è molto importante soprattutto per il passaggio del Nilo, due porti sul canale di Suez e le risorse minerarie. Hemedti ha il supporto di diversi Stati, tra cui gli Emirati Arabi Uniti, che acquistavano l’oro direttamente dal signore della guerra. Inoltre, lo pagarono anche per il suo supporto alla causa yemenita. Anche la Libia lo supporta, grazie al suo intervento a favore di Khalifa Haftar nella guerra civile. Di fatto, il feldmaresciallo fa da intermediario tra la Russia e Hemedti ed invia carburante alla RSF.
Nel frattempo, l’Egitto si mantiene neutrale per non indispettire gli EAU (Emirati Arabi Uniti), visto che supportano economicamente il Paese. Mentre USA e Arabia Saudita aspirano al ruolo di intermediari al quale potrebbe aggiungersi anche la Cina dopo aver chiuso un trattato con Iran e Arabia Saudita.
Repubblica Democratica del Congo
Un altro conflitto caduto nel dimenticatoio dei media è quello che imperversa nella Repubblica Democratica del Congo. Nonostante la ricchezza geologica del Paese, nel 2022 secondo la Banca Mondiale, il 70% dei congolesi vive sotto la soglia di povertà. L’epicentro
degli scontri è Kivu Nord, dove milizie locali e gruppi ribelli sono in lotta per il controllo delle risorse, mentre i civili subiscono violenze anche dall’esercito che dovrebbe proteggerli. Solo nel 2023, 600 mila persone sono state sfollate e sono state costrette a rimanere in campi di accoglienza ormai incapaci di accogliere altri rifugiati.
Jean-Léonard Touadi, giornalista, docente, autore ed ex deputato italo-congolese ha affermato: «Non siamo di fronte a una guerra etnica o tribale ma nel cuore della competizione globale tra Usa, Cina, Europa per l’influenza geopolitica sul continente e per l’accesso alle sterminate risorse minerarie, quali cobalto e terre rare, vitali per saziare l’appetito dei vicini e dell’Occidente». A ciò si aggiunge la vittoria delle elezioni del Presidente uscente, Félix Tshisekedi, con il 73% dei voti. Però è stato subito accusato di brogli elettorali dall’opposizione, tra cui il premio Nobel per la pace Denis Mukwege, che ha ricevuto meno dell’1% dei voti.
Etiopia
L’Etiopia è il secondo Paese per popolazione in Africa, ma sembra che le persecuzioni etniche non siano destinate a fermarsi. Già con la guerra del Tigrè, iniziata nella notte
tra il 3 ed il 4 novembre 2020, ci sono stati circa 500 mila morti.
Però dal cessate il fuoco firmato a Pretoria, Sud Africa, nel 2022, la situazione non sembra essere migliorata. L’unico cambiamento è stato il «nemico» del governo di Abiy Ahmed Ali, premio Nobel per la pace nel 2019 e Primo Ministro dal 2018.
Ad oggi, le forze federali si scagliano contro la regione di Amhara, ignorando la situazione umanitaria nel Paese. L’ex colonia italiana attualmente ha oltre 5 milioni di persone sfollate internamente ed ha bisogno di 20 miliardi di dollari per la ricostruzione. Nonostante una guerra da poco terminata e un’altra già in corso, il governo ha invitato le forze del Tigrè ad unirsi allo scontro.
Attualmente la regione sta subendo diversi bombardamenti, incluso il giorno di Natale che ad Oromia ha causato 8 morti e continuano i bombardamenti della regione che hanno ucciso 5 civili e altri 8 il giorno di Natale ad Oromia. Oltre a questi conflitti interni si aggiunge la volontà di uno sbocco sul mare, il quale non può che riguardare l’Eritrea, con cui l’Etiopia ha già combattuto dal 1998 al 2000, o il Gibuti e la Somalia. Ad oggi sembra
che abbia trovato un accordo con Somaliland. Lo Stato non è riconosciuto internazionalmente che potrebbe garantirgli un accesso diretto in cambio del riconoscimento.
Medio Oriente e Asia
Yemen
Il guerra nello Yemen persiste ininterrotto dal 2014, con brevi pause dovute a tregue occasionali che tuttavia non hanno garantito una stabilità duratura. A scontrarsi sono gli Houthi, gruppo sciita fondato da Hussein Al-Houthi, ed i militari fedeli a Abd Rabbih Mansur Hadi. Nel gennaio 2015 il movimento armato conquistò la Capitale Sana’a, ma così facendo attirarono l’attenzione dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, preoccupati dell’influenza dell’Iran, anch’esso sciita. Le due monarchie iniziarono a bombardare il Paese con droni americani e con il supporto delle armi acquistate dal Regno Unito e Italia. Di fatto, il governo italiano nella prima metà del 2020 fornì pistole e fucili d’assalto per il valore di oltre 5 milioni di euro. L’export venne bloccato nel gennaio del 2021. Oltre ai droni, gli Stati Uniti aiutarono con mercenari «Academi», precedentemente chiamati Blackwater, per contrastare l’invio di armi iraniane per gli Houthi, ma mai confermato.
Il gruppo sciita è stato inserito nella lista dei gruppi terroristici da Trump per l’utilizzo di mine antiuomo ed il reclutamento dei bambini soldato.
Diritti umani e Houthi
In contrapposizione, nel 2016, l’Arabia Saudita è stata inserita nella lista dei Paesi che hanno commesso crimini di guerra contro i bambini dall’ONU, per poi essere rimossa da António Guterres. Di fatto, la monarchia ha utilizzato bombe a grappolo, nonostante vietate dal diritto internazionale, e secondo lo Yemen Data Project un terzo dei bombardamenti era rivolto su ospedali, scuole e aree residenziali.
Attualmente, gli Houthi stanno bloccando il normale flusso commerciale che passa dal Mar Rosso al Golfo di Aden, in cui si stima transiti circa il 10% del commercio mondiale. Per ciò gli Stati Uniti hanno creato «Prosperity Guardian», una missione difensiva di cui fanno parte: Regno Unito, Bahrain, Canada, Francia, Paesi Bassi, Norvegia e Seychelles. L’operazione serve come deterrente contro gli attacchi rivolti alle navi in transito.
Kurdistan
Il Kurdistan è uno stato che ufficialmente non esiste, ma il popolo curdo sì. Di fatto, oltre 35 milioni di persone sono curde, con una lingua comune ed un proprio alfabeto.
Molti curdi professano l’Islam sunnita, con minoranze sciite e cristiane. Il Kurdistan dovrebbe sorgere tra: Turchia, Siria, Iraq, Iran ed in misura minore in Armenia. Di fatto,
dopo la prima guerra mondiale e la caduta dell’Impero Ottomano, il Trattato di Sèvres del 1920 prevedeva la creazione di uno stato autonomo.
Infatti secondo la Società delle Nazioni ed i principi enunciati da Woodrow Wilson il popolo ne aveva pieno diritto. Ma con il Trattato di Losanna, il quale definì i confini turchi, lo Stato non vide mai la luce. Il territorio su cui dovrebbe sorgere è ricco di petrolio, oro, carbone e zinco.
Durante la guerra civile siriana del 2011, venne fondata la Federazione Democratica della Siria del Nord, chiamata Rojava. Questi territori sono stati successivamente presidiati dalle milizie di difesa del popolo Ypg e Ypj, principalmente costituite da combattenti curdi, ma con la partecipazione anche di membri di altre etnie presenti nella regione. Nel 2013 la regione è stata attaccata dallo Stato Islamico, ma grazie alla resistenza delle Forze
Democratiche Siriane, a cui si sono uniti Ypg e Ypj, sono riusciti a respingerli.
Partito dei Lavoratori del Kurdistan
Il Pkk, Partito dei Lavoratori del Kurdistan, è un’organizzazione politica e paramilitare fondato nel 1978. In breve tempo iniziarono a rapire funzionari governativi turchi e compiere attentati nel territorio turco. Tutt’ora è etichettato come organizzazione terroristica da molti Paesi, anche se aiutarono pure loro a respingere gli jihadisti. Con il ritiro dei militari americani deciso da Trump nel 2019, la Turchia poté iniziare a bombardare indiscriminatamente il Rojava. Secondo Amnesty International, il governo di Ankara voleva eliminare le comunità curde locali, spacciandole per sostenitrici del Pkk.
Ad oggi i curdi rappresentano circa il 20% della popolazione turca, ma il solo parlare della condizione curda nel governo di Erdogan è considerato un diretto sostegno
al gruppo terrorista. Inoltre, il 21 giugno 2021 la Corte costituzionale turca approva all’unanimità la messa sotto accusa dell’Hdp, terza forza politica del Paese, per presunti legami con il Pkk. L’8 luglio il Parlamento europeo approva la «Risoluzione sulla repressione dell’opposizione in Turchia, in particolare il Partito Democratico dei popoli (Hdp)». Il documento esprime una netta condanna delle influenze che compromettono il regolare funzionamento del sistema democratico in Turchia.
Myanmar
Nel 2021 in Myanmar è stato rovesciato il governo delle Lega Nazionale per la Democrazia, guidato da Aung San Suu Kyi che è stata arrestata. Al potere è salito il Partito dell’Unione della Solidarietà e delle Sviluppo, guidato dal generale Min Aung Hlaing, il quale ha dichiarato lo stato di emergenza. Inoltre, le telecomunicazioni sono state bloccate, inclusa la televisione pubblica. Dopo 6 mesi il generale sostituì il Consiglio di Amministrazione dello Stato e si impose come Primo ministro. Ad oggi, quasi 50.000 civili sono stati costretti a fuggire a causa degli scontri nel nord del Paese. Alla fine di ottobre, un’ampia offensiva è stata lanciata da un’Alleanza Armata composta da gruppi di minoranze etniche contro la giunta militare al potere nel Paese. Inoltre, l’Esercito di Liberazione Nazionale Taaung (Tnla) e l’Esercito Arakan (Aa) hanno annunciato di aver preso il controllo di diverse postazioni
militari. Soprattutto hanno ripreso il controllo della città di Chinshwehaw, al confine con la Cina, principale partner commerciale del Myanmar.
Nel giorno dell’indipendenza del Paese dai britannici, il 4 gennaio, sono stati rilasciati quasi 10 mila prigionieri, ma Aung San Suu Kyi rimane in carcere, condannata a 27 anni di reclusione. Dal golpe oltre 25 mila persone sono state arrestate, la maggior parte per reati politici, e 4 mila uccisi dalle forze di sicurezza.
Stati Islamici
Indonesia
L’Indonesia si sta preparando per le elezioni che si terranno il 14 febbraio, ma secondo quanto riportato da «Eurasiaview» sui social stanno circolando fake news. Questo tentativo sarebbe stato organizzato da gruppi terroristici antidemocratici e l’obiettivo non sarebbe quello di influenzare la popolazione, che conta oltre 270ì milioni di persone, ma di scatenare manifestazioni e conflitti interni.
Tra i responsabili sembra che siano presenti il gruppo Jemaah Islamiyah, responsabile del bombardamento del 2002 di Bali, ed il gruppo affiliato allo Stato Islamico (Isis) Jamaah Ansharut.
Filippine
Un altro stato vittima degli jihadisti sono le Filippine. Di fatto, il 2 dicembre, è esplosa una bomba nella palestra della Mindanao State University di Marawi, che ha ucciso 4 persone e ne ha ferite oltre 40. La città è la capitale della provincia di Lanao del Sur, inclusa nella regione autonoma musulmana di Bangsamoro. Ufficialmente è stata istituita nel 2019 in seguito agli accordi che hanno posto fine al lungo conflitto con le milizie musulmane nella vasta isola meridionale delle Filippine, nota come Mindanao, caratterizzata da una significativa presenza islamica. L’Isis manterrebbe le operazioni nel paese attraverso le sue connessioni con diversi gruppi jihadisti locali come Maute, Abu Sayyaf, Bangsamoro Islamic Freedom Fighters e Ansar Khalifa Philippines.
Iran
Lo Stato Islamico non sta colpendo soltanto l’Asia, ma è ancora attivo in Medio Oriente. Infatti, il 4 gennaio, ha rivendicato l’attentato in Iran avvenuto ieri. Le esplosioni a Kerman, nei pressi del cimitero dove è sepolto Qassem Soleimani, hanno causato 84 morti e 284 feriti. Le persone erano riunite per ricordare l’anniversario della morte del generale avvenuta quattro anni fa. Anche in Siria continua la lotta contro gli jihadisti, nonostante siano stati dichiarati sconfitti.