Nuvole nere si stiano addensando sul nostro futuro: lavorare tutti e di più, chi viene lasciato a casa lo paghi lo Stato

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Il 1° maggio sognato da Vescovi e... Bonomi, di Mauro Maruzzo
Il 1° maggio sognato da Vescovi e... Bonomi, di Mauro Maruzzo

Sono sconcertato. Ho la sensazione (o qualcosa di più) che terribili nuvole nere si stiano addensando sul nostro futuro. Non bastava la pandemia, no, ci voleva anche un bestiario di politicanti da strapazzo attenti più al loro interesse personale piuttosto che a quello del paese o dell'ideale che falsamente professano. Di imprenditori che, anche, nella situazione drammatica che stiamo vivendo pensano più che altro a sfruttarla per mantenere ed aumentare i propri privilegi.

Così, di fronte alla prudenza doverosa ed auspicata dalle persone qualificate (medici e paramedici, studiosi, esperti virologi, scienziati che studiano le epidemie e che cercano la soluzione che ci liberi dall'incubo del Coronavirus), si scatenano pretendendo a gran voce che si riapra tutto. Che si produca o meglio, che si riprenda a consumare, che si vada in vacanza, che si ritorni a sfruttare ed essere sfruttati.

Certo, a parole sostengono che lo si deve fare in sicurezza, ma quando qualcuno prova a dettare regole che, necessariamente, tendono a disegnare una ripartenza più ragionata e si chiede maggiore potere a chi subisce la prepotenza padronale, questi personaggi sviano il discorso. Cominciano a declamare le solite litanie del capitalismo trionfante, di quella ideologia egoista e individualista che ci ha portato a una situazione che, soprattutto nell'emergenza, dimostra di essere non solo inefficace ma profondamente sbagliata.

La priorità, affermano, è riaprire, ricominciare a poter fare tutto come e più celermente di prima. Noi sappiamo come rilanciare l'economia, dicono, senza spiegare niente se non attraverso i soliti slogan imprenditoriali. E a gran parte dei cittadini, assuefatti da decenni di pensiero unico, sembrano proposte logiche, anzi, le sole possibili. Altrimenti, sostengono, il mercato ci farà fallire, noi, tutti, come paese.

Sono quelli che, per brevità, si possono definire “lorsignori”. Sono gli stessi, in gran parte, che avrebbero lasciato la soluzione della pandemia alla benevolenza del buon dio. Che avrebbero voluto che tutto rimanesse aperto, che non avrebbero fermato niente. Tanto, il coronavirus, era poco più di niente. Lo aveva scritto la confindustria bergamasca e la regione lombardia non ha creduto necessario né opportuno creare la zona rossa ad Alzano. Poi, dopo qualche giorno, gli stessi avrebbero chiuso tutto e di più, per poi dire che si poteva, invece, riaprire tutto. Che si doveva farlo per non morire (e, intanto, negli ospedali i reparti di terapia intensiva erano al collasso e nelle case di riposo si moriva in silenzio). E sono gli amministratori che pretendono maggiore autonomia regionale (un grimaldello per scardinare governo e potere statali) nonostante il disastro che loro e non altri hanno combinato nelle regioni che governano.

Certo, la “quarantena” che viviamo è devastante per molti aspetti. Ci si annoia, non si possono abbracciare i propri cari, non si può andare al bar o al ristorante o nei negozi ad acquistare qualche capo di abbigliamento né cose superflue … non si può “consumare”. Ma se ci guardiamo indietro e intorno vediamo gli ammalati e i morti. Vediamo cosa è successo là dove non si è prestata la dovuta attenzione, dove sono rimasti aperti i primi e pericolosi focolai della pandemia (vedi Bergamo e Brescia). Vediamo come non si garantivano le adeguate sicurezze a chi doveva curare e a chi doveva essere curato. Vediamo cosa è successo nelle case di riposo.

Contiamo i morti e ci accorgiamo che siamo stati imprudenti, che abbiamo sottovalutato quello che stava arrivando. Quello che ci avevano detto da qualche mese che sarebbe fatalmente arrivato anche da noi. Eppure avevamo le informazioni che provenivano da quei posti lontani che hanno nomi strani, Wuhan, Hubei … Abbiamo pensato, forse, che la cosa non ci avrebbe toccato ma, in definitiva, sapevamo. E non ci siamo preparati. Pochi i dispositivi di sicurezza per gli operatori sanitari, i posti di terapia intensiva insufficienti (ne abbiamo distrutti tantissimi in questi ultimi decenni con la convinzione che non servivano), scarsa protezione per chiunque … e la ricerca che dovrebbe servire a prevenire le emergenze è stata umiliata, definita inutile, troppo costosa e, soprattutto, non finalizzata al profitto. Il risultato è stato un disastro, o ce ne siamo già dimenticati?

E adesso? La pandemia non è passata, il virus non è stato ancora sconfitto. I contagi continuano, i morti anche, gli esperti (che non sono certo né i miserabili che popolano lo scenario politico né gli “imprenditori seri” che si preoccupano solo dei loro soldi) ci invitano ad essere prudenti, a fare le cose con la massima attenzione.

E invece, gli stessi personaggi che hanno fatto il Jobs Act e che hanno creato precarietà e disoccupazione, gli stessi che se ne sono sempre fregati delle lavoratrici e dei lavoratori, gli stessi che hanno demolito la sanità pubblica favorendo quella privata (magari arricchendosi personalmente grazie a questo trasferimento di risorse), gli stessi che hanno accumulato enormi ricchezze (miliardi e miliardi di euro nelle tasche di pochi ricchi sfondati) con lo sfruttamento del lavoro altrui e dell'ambiente di tutti … si, proprio “lorsignori”, adesso fanno appello ai “disoccupati”, ai “lavoratori”, ai “poveri”, a tutti quelli che hanno sempre guardato dall'alto in basso con la massima indifferenza.

Sostengono che il governo segue le direttive del sindacato (per altro da tempo timido e non certo conflittuale). Chiedono la “ribellione” dei cittadini verso chi, dicono, li vuole tenere prigionieri. Lo fanno per utilizzarli, per sfruttare la loro preoccupazione, per creare e cavalcare l'incertezza. Lo fanno perché il loro obiettivo è che tutto ritorni come e anzi peggio di prima, che si possa ricominciare a sfruttare, a ricattare, a pagare poco o niente chi lavora, a inquinare perché bisogna essere competitivi e, soprattutto, che si possa diventare sempre più ricchi. Ma non tutti potranno stare meglio, per carità, questo privilegio è destinato solo a “lorsignori” autodefinitesi “imprenditori seri”.

Dall'emergenza vogliono uscire prendendosi potere e ricchezza. Anche le briciole. Vogliono tutto. Vogliono comandare, continuare a fare le guerre, a spendere in armi, a devastare il territorio proprio e altrui. Vogliono continuare a non fare ricerca, a usare lo sviluppo tecnologico solo per aumentare i loro profitti. E odiano chi pensa invece che l'innovazione, la robotica, l'informatica debbano essere destinate a chi vive del proprio lavoro perché possa avere più tempo libero, vivere con minore fatica e alienazione, ottenere una retribuzione migliore e degna di una vita che sia sicura e non precaria. In poche parole che chiunque possa avere un futuro o, almeno, la speranza che avevano le nostre madri e i nostri padri di vedere i propri figli destinati a una vita più piena e serena.

A “lorsignori”, questo non è mai interessato e non interessa adesso. Non interessa neppure se i lavoratori delle loro imprese si ammalano, se muoiono, se devono sputare sangue per poter sopravvivere. A loro interessano solo i propri denari, gli “schei”. “Lorsignori” appartengono alla categoria di quelli che, come diceva De Andrè, hanno i cuori a forma di salvadanaio.

Sono sconcertato perché vedo i discorsi populisti che minimizzano il pericolo che abbiamo toccato e tocchiamo con mano e che abbiamo sentito e sentiamo con dolore.

“Andate tutti a lavorare e alle nostre condizioni”, ci dicono, “questa è la priorità”. La sicurezza, forse, verrà dopo, anzi ce la daranno se e quando sarà possibile. Ce la garantiranno “lorsignori” stessi, quelli che non l'hanno mai garantita neppure prima perché era un costo e bisognava essere moderni e competitivi. Quelli che considerano la morte, per infortunio nel lavoro o per malattia professionale, di migliaia di persone ogni anno solo un danno collaterale. Quelli che pensano che lavoratrici e lavoratori siano solo numeri, pezzi di ricambio, vittime da sacrificare ai loro unici dei che sono mercato e profitto.

Così, adesso che intravedono una seppur minima presa di coscienza soprattuto nel considerare la sanità pubblica e non quella privata (che si è dimostrata insufficiente e non adeguata all'emergenza) un bene utile e necessario, “lorsignori” si scatenano con la propaganda. Pretendono, loro che possiedono miliardi e miliardi di euro, che lo Stato (e quindi tutti i cittadini che le tasse le pagano veramente, che non trasferiscono le aziende all'estero come fanno loro per risparmiare e poter sfruttare persone e territorio) si accolli tutti i costi, che metta a loro disposizione investimenti a fondo perduto. Soprattutto che dia loro soldi e tanti.

L'obiettivo è che i lavoratori non pensino, che siano spettatori e che tornino ad essere dei “bravi consumatori”, come il pensiero unico capitalista insegna.

Bisogna stare attenti perché non si deve tornare come prima, non è giusto né equo. Dobbiamo pensare che si possa imparare da quanto sta succedendo. Che si possa avere un futuro migliore, senza sperequazioni. Un mondo nel quale la guerra sia veramente ripudiata, la ricchezza sia distribuita equamente, nel quale lo sfruttamento delle persone e dell'ambiente siano considerati crimini osceni quali sono, nel quale a costruire la Storia sia chi lavora e non chi specula. Un mondo nel quale il progresso serva a lavorare meglio, meno e in sicurezza.

Un'utopia? Un sogno? Una fantasia? Forse. Ma perché non credere che possa essere possibile? Ricordiamoci che la fantasia non è prerogativa dei bambini, ma è necessaria a costruire un futuro migliore e a trasformare un sistema che di fronte a un virus ha dimostrato in maniera evidente la propria spaventosa inadeguatezza.

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Giorgio Langella
Giorgio Langella è nato il 12 dicembre 1954 a Vicenza. Figlio e nipote di partigiani, ha vissuto l'infanzia tra Cosenza, Catanzaro e Trieste. Nel 1968 il padre Antonio, funzionario di banca, fu trasferito a Lima e lì trascorse l'adolescenza con la famiglia. Nell'ottobre del 1968 un colpo di stato instaurò un governo militare, rivoluzionario e progressista presieduto dal generale Juan Velasco Alvarado. La nazionalizzazione dei pozzi petroliferi (che erano sfruttati da aziende nordamericane), la legge di riforma agraria, la legge di riforma dell'industria, così come il devastante terremoto del maggio 1970, furono tappe fondamentali nella sua formazione umana, ideale e politica. Tornato in Italia, a Padova negli anni della contestazione si iscrisse alla sezione Portello del PCI seguendo una logica evoluzione delle proprie convinzioni ideali. È stato eletto nel consiglio provinciale di Vicenza nel 2002 con la lista del PdCI. È laureato in ingegneria elettronica e lavora nel settore informatico. Sposato e padre di due figlie oggi vive a Creazzo (Vicenza). Ha scritto per Vicenza Papers, la collana di VicenzaPiù, "Marlane Marzotto. Un silenzio soffocante" e ha curato "Quirino Traforti. Il partigiano dei lavoratori". Ha mantenuto i suoi ideali e la passione politica ed è ancora "ostinatamente e coerentemente un militante del PCI" di cui è segretario regionale del Veneto oltre che una cultore della musica e del bello.