Si va avanti con i pareggini, con le prestazioni al limite della sufficienza, con le ultime spiagge e le fiammelle della speranza come, appunto l’1-1 con la SPAL. Ma la sterzata che ci si aspettava o di cui ci si illudeva con il calciomercato di gennaio non c’è stata. Il turbo non si è acceso, la qualità non è cresciuta, la media da promozione è lontanissima. Il Vicenza è un accelerato e invece ci sarebbe bisogno di un FrecciaRossa.
Anche contro la SPAL la partita dei biancorossi è stata mediocre. La squadra grintosa non si è vista nemmeno stavolta, la lentezza sembra ormai un connotato ineliminabile, la scarsità delle azioni offensive è una costante, il centrocampo è sempre in soggezione e la difesa un colabrodo. L’allenatore è costretto a fare i salti mortali per mandare in campo undici giocatori in efficienza e questo influisce anche sui cambi. I rinforzi arrivati da un mese si distinguono più per non essere ancora in condizione che per le loro qualità tecniche e non si può dire che abbiano apportato il miglioramento che ci si aspettava da loro.
Gran parte dei tifosi, anche dopo la partita con la SPAL, ha rinunciato al sacrosanto diritto di contestare e di criticare e preferisce un sostegno fine a sé stesso visto che la prestazione dei giocatori non ne sembra influenzata. Si continua a fare appello ai colori sociali, al blasone, al Lanerossi e non ci si accorge che questi valori ormai contano ben poco al di fuori della fede biancorossa come dimostra anche il pareggino con la Spal.
Il calcio, infatti, sta cambiando anche in Italia e l’evoluzione sta accelerando. Assistervi dalla piccola piazza vicentina dà un’impressione di arretratezza, di guardare dal buco della serratura, di perdere il treno all’ultima fermata a disposizione. Il futuro ci sta passando davanti e a Vicenza stiamo alla finestra. Perché si è troppo legati al passato, a una storia sportiva i cui ultimi fasti risalgono a un quarto di secolo fa, alla Coppa Italia del 1997.
Il “blasone” (ma quale, poi? in centovent’anni il Vicenza ha vinto solo quella Coppa ed è stato vicecampione d’Italia – titolo che non esiste – con il Real) è un concetto che ha oggi un valore solo nel marketing sportivo, è un valore aggiunto di un bene (la società) che deve disporre di ben altri asset: bilanci in attivo, patrimonio, investimenti, organigramma, settore giovanile, numero di spettatori, fidelizzazione, stadio di proprietà.
È su questi aspetti che il calcio attuale dà i voti ai club e seleziona quelli che avranno titolo per accedere alla élite della futura Serie A. Che sarà un circolo non chiuso ma ristretto a sedici o diciotto squadre, una metà delle quali coinvolte in competizioni internazionali e, comunque, tutte in grado di offrire spettacolo sportivo, l’unico argomento che interessa i network. Il calcio, anche in Italia, è dipendente dai ricavi dei diritti televisivi, senza i quali le società non riuscirebbero a sopravvivere perché sono la loro principale voce in attivo.
Questo è il contesto in cui deve necessariamente inserirsi una società che abbia delle ambizioni e sempre che la A non sia poi declassata da un campionato continentale a cui accederebbero solo quattro o cinque dei top club italiani. La Superlega, bloccata l’anno scorso dalla UEFA, prima o poi prevarrà per evidenti ragioni di mercato. Molte società, l’ultima è l’Atalanta, hanno cambiato proprietà, a quelle locali sono subentrate quelle estere, i nuovi soggetti sono fondi di investimento internazionali con capacità di investimento smisurate. Il calcio italiano è attraente per due motivi: ha prospettive di crescita notevoli e le società costano poco. L’investimento da fare è quindi relativamente contenuto e gli analisti prospettano ricavi importanti. Che volete che interessi a questi investitori la storia di una società? Tanto quanto la galleria dei ritratti degli antenati nella magione di una nobile famiglia decaduta.
Purtroppo, la piazza vicentina non si rende conto di questa evoluzione ed è convinta che qualunque soggetto (proprietà, tecnici e calciatori) che approda qui si debba sentire onorato di essere ammesso e in dovere di spendere e operare, in ufficio o in campo, come se appartenesse a un club che ha vinto la Champions League e non a chi pareggia, quando va bene, con la SPAL. È evidente che qui si fa una sopravvalutazione del Vicenza, basata da un lato su parametri obsoleti e, dall’altro, su (pochi) risultati sportivi che risalgono alla preistoria calcistica. La A a Vicenza manca da vent’anni, ci sono state tre retrocessioni, un fallimento, tre campionati di fila in Lega Pro. Il pubblico è diminuito, il sostegno di imprenditori, banche e finanziarie è un sogno, lo stadio è ancora e sempre il vecchio Menti di proprietà comunale.
L’avvento di Renzo Rosso aveva fatto sperare in una rinascita, in una Nobile Provinciale-2. In cinque anni, aveva promesso. Lasciamo stare, per non ripeterci, le modalità con cui si è insediato a Vicenza: ha fatto i suoi interessi, i vicentini sono rimasti alla finestra e ha trovato una tifoseria che ha preferito ripartire dalla Lega Pro con il… Bassano che dai Dilettanti con la vecchia matricola. “O Franza o Spagna purchè se magna”, il motto cinquecentesco del Guicciardini è appropriatissimo.
Rosso non è riuscito però a concretizzare il suo progetto perché – ormai è pacifico – non ha fatto investimenti adeguati e non si è affidato a dirigenti all’altezza. Sono mancati e mancano alla società un amministratore delegato, il manager di cui si dotano tutti i club che hanno ambizioni, e un direttore sportivo di rango nazionale.
Mister Diesel ha fatto in questi ultimi anni per il Vicenza quello che riteneva giusto per sé e per la sua OTB e non dimentichiamo che le ultime due stagioni sono state un massacro a causa della pandemia. Non si può dire che quanto ha fatto sia eccezionale ma nemmeno è giusto criticarlo se non per aver dato e continuato a dare illusioni anziché responsabilizzare la piazza, condividere le difficoltà e chiedere tempo e pazienza.