Ci sono speranze per l’Afghanistan? Testimonianze di Bitani, un mujāhid

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Afghanistan, una speranza per questo paese
Afghanistan, una speranza per questo paese

Il 15 agosto 2021 le forze talebane entrarono a Kabul e presero la città senza molta resistenza, riportando in Afghanistan un governo di tipo teocratico. Sempre nella stessa data i portavoce del neo governo talebano annunciarono che la guerra era finita e che si era costituito in Afghanistan un «emirato islamico»[1]. Questa notizia ha scosso i media e la stampa internazionale solo per poco tempo, per poi rimpiombare nell’ombra ed essere accettata come una “situazione normale”, come del resto accade a tutte le notizie che riguardano situazioni apparentemente lontane.

La veloce avanzata dei talebani è stata l’effetto della ritirata delle forze NATO dall’Afghanistan, circostanza che ha fatto ripiombare il paese sotto il controllo talebano senza una particolare resistenza. Gli stessi talebani hanno mantenuto, e continuato a costruire, un consenso nella parte più povera e arretrata del paese, facendo crollare lo Stato afghano, cavalcando il malcontento nei confronti dell’occupazione NATO durata venti anni.

Un interessante sondaggio del Pew Research Center del 2013[2] afferma che il 61% degli afghani già allora giudicava giusto applicare la sharia, la legge islamica, a tutti gli abitanti del paese, anche se non musulmani. Persino lo Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction, pur continuando a essere uno strumento della propaganda, ha sentito la necessità di analizzare le criticità della missione afghana[3] e di capire dove avessero fallito nel cercare di ricostruire un paese, se mai è possibile ricostruire un paese dall’esterno.

Ma ci sono ancora speranze per questo paese devastato?

Farhad Bitani, un ex militare mujāhid autore del romanzo autobiografico L’ultimo lenzuolo bianco, scrive: «ero uno di loro»[4], sottolineando che solo in un secondo momento ha avuto una profonda trasformazione, che lo ha portato a raccontare al mondo la tragedia che stava vivendo il suo popolo. La storia parte dalla nascita del protagonista e arriva, attraverso un lungo viaggio, fino ai giorni nostri. L’autore, raccontando la storia da quando era un militare e «uno di loro», dà uno sguardo diverso a un lettore che non ha vissuto questa situazione in prima persona. L’autore racconta infatti come il popolo afghano vedeva nei mujaheddin dei liberatori dall’occupazione sovietica e gli stessi governi occidentali li supportarono in funzione antisovietica.

«In seguito, dopo la fine del governo del dottor Najib[5], l’Afghanistan venne sbranato dai gruppi di mujaheddin, criminali internazionali che devastarono e depredarono il paese, distruggendo case e famiglie, rapendo bambini, violentando le donne e soffocando nel sangue qualunque protesta»[6]. Questa testimonianza racchiude uno dei nodi fondamentali del libro, ovvero che chiunque sia arrivato per liberare l’Afghanistan, o dall’esterno o nel nome di Dio, lo abbia in realtà distrutto.

I mujaheddin sono stati accolti come liberatori e poi sono diventati tiranni, ancora più tirannici di coloro che si proponevano di scacciare. Infatti, nel libro viene raccontato come dalla caduta del governo di Najibullah, nel quale c’erano ancora diritti fondamentali garantiti, la situazione sia progressivamente degenerata. Durante il governo dei mujaheddin il paese sprofondò in guerre etniche, con ciascuna etnia sostenuta da tutti quei paesi esteri che avevano interesse nel mantenere una situazione di guerra e di tensione. Il mondo si divise nel supportare i generali in funzione antisovietica o antiamericana, usando il popolo afghano come teatro di combattimento.

Non va dimenticato che anche i talebani furono accolti come liberatori, come portatori di pace in un paese ormai devastato dalla guerra: «Il popolo afghano è stato messo in ginocchio dai mujaheddin. Quando sono arrivati i talebani, nel 1996, sono stati accolti come una liberazione. Ma dopo qualche tempo è apparso chiaro che non era cambiato niente. Sarebbe stato meglio che nessun liberatore fosse arrivato in nome dell’Islam»[7].

Il popolo afghano, dopo averli accolti come «i soccorritori finalmente giunti a liberare l’Afghanistan»[8], fu devastato dalle atrocità talebane, che hanno definitivamente inginocchiato il paese. Del resto, la situazione migliorò solo in parte con la fine dell’incubo talebano e l’occupazione NATO, perché «il problema fu l’alleanza della NATO con i mujaheddin. Questo contribuì a fare in modo che il potere dei mujaheddin venisse legittimato dall’Occidente. Anche dentro il governo cosiddetto democratico di Karzai, tutti i membri del parlamento erano fondamentalisti e continuavano tranquillamente a compiere nefandezze»[9].

Prima di trovare soluzioni, dovremmo cercare di capire le tragedie di un popolo. Questo romanzo forse è uno spunto per cercare di recuperare le uniche due cose che secondo l’autore salveranno l’Afghanistan: la verità e l’umanità in un paese nel quale «i talebani sono riusciti a sottomettere l’Afghanistan non soltanto grazie all’uso della forza, ma anche per una loro abilità nell’entrare nella mente delle persone e dominarla»[10].

[1] https://www.washingtonpost.com/world/2021/08/15/afghanistan-taliban-islamic-emirate/

[2] https://www.pewresearch.org/religion/2013/04/30/the-worlds-muslims-religion-politics-society-beliefs-about-sharia/

[3] https://www.sigar.mil/pdf/lessonslearned/SIGAR-21-46-LL.pdf

[4] F. Bitani, L’ultimo lenzuolo bianco, Neri Pozza Editore, Vicenza 2020, p. 14.

[5] Mohammad Najibullah Ahmadzai

[6] F. Bitani, L’ultimo lenzuolo bianco, cit., p. 45.

[7] Ivi, p. 50.

[8] Ivi, p. 93.

[9] Ivi, p. 135.

[10] Ivi, p. 102.


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a cura di Michele Lucivero

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Questo articolo è il frutto della collaborazione tra il giornale Vipiù.it e il Liceo Scientifico, Scienze Applicate, Linguistico e Coreutico “Da Vinci” di Bisceglie (BT) per i Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento (PCTO).