Se, dopo aver fatto una manovra scorretta e sul punto di compierne una peggiore, ti si affianca un SUV, lucido e costoso, con i vetri abbrunati e l’enorme ruota piantata di lato alla tua utilitaria, il pensiero che segue istantaneo la tua irritazione è che, al di là delle convinzioni soggettive sulla democrazia (e sullo stato leviatano), a bordo ci sarà di certo una persona di potere. Purtroppo lo status symbol s’impossessa delle nostre agnizioni involontarie e condiziona il nostro atteggiamento. Quando vogliamo reagire ad un sopruso quotidiano, oltre a contare sulle nostre capacità dialettiche o, nel peggiore dei casi sulla nostra forza fisica, parallelamente alla lettura del destino biologico scritto sul viso del rivale, percepiamo il suo stato sociale e pronostichiamo le possibilità di vittoria in tribunale delle nostre ragioni. E’ questa una consapevolezza che abbiamo già in noi, ma che faremmo bene a proclamare: il sistema giudiziario è l’estremo guardiano del gioco sociale, il supremo decisore che assegna senza appello il ceto a cui appartiene ogni postulante.
A questo scopo diecimila giudici, quarantamila impiegati e cancellieri, altrettanta polizia giudiziaria, e una folla di avvocati, 250.000 (che in Italia sono numerosi quanto i loro colleghi di tutta Europa), scorrazzano non senza una certa piccata indolenza per i corridoi e le scale dei palazzi di giustizia, e arredano di targhe auree gli ingressi gentilizi dei centri storici. Ecco il leviatano. Il sistema è attivabile ad impulso privato, e conferma le differenze sociali che arruolano qualità disuguali di difesa, tali da permettere differenze sostanziali di giustizia. Finché non si è avuta l’avventura di servirsene (difendersi, sanare un abuso, correggere un provvedimento), il sistema è ritenuto come una tutela finale alle ingiustizie del mondo. Un sistema che attraverso la discrezione, i liberi convincimenti e l’applicazione ancipite delle procedure non dissolve il dubbio di giudicare in maniera elastica a seconda di chi si trova di fronte. Purtroppo “…la giustizia non è di questo mondo, ma dell’altro” diceva Papa Pio VII al Marchese del Grillo, nel film del 1981 – e la confusione colpevole che si genera tra legge, giustizia e magistratura serve a tenere un popolo illuso e soggiogato – Marchese del Grillo: “Eh, lo so Santità. Giustizia dell’altro mondo…”.
Prima o poi, si spera, anche i 5 stelle dismetteranno i colori da curva sud a favore dei magistrati e cominceranno a fare i distinguo tra giudici. Livio Pepino, ad esempio, componente del CSM in pensione, e autore del saggio “Forti con i deboli”, ne è convinto: il nostro sistema giudiziario è del tutto inservibile per tutelare la dignità dei miseri. Anzi, proprio qui la dignità residua lasciata miracolosamente in piedi dall’ordine capitalistico è definitivamente fatta a pezzi. Secondo la concezione di Althusser, lo Stato è definito come un insieme di apparati repressivi e ideologici che permettono alle classi dominanti di esercitare il loro potere su quelle subalterne, e il sistema giudiziario è inteso appunto come apparato repressivo.
A dimostrazione di quanto sopra e, segno indiscutibile della loro appartenenza di classe, stanno gli stipendi siderali che i giudici percepiscono: i loro salari sono utilizzati come pietra di paragone per tutte le altre retribuzioni pubbliche. La materia che trattano è composta da codici di condotta e di procedura: i primi platealmente mancanti di prescrizioni per il potere e ottusamente sbilanciati verso gli alleati di classe, i secondi minuziosamente confezionati per impedire che l’equità e la verità possano compromettere il progetto repressivo di cui il sistema è incaricato. Nell’assegnare l’appartenenza di ceto – cioè nel sentenziare – il magistrato è spinto dalla sensibilità verso il potere del denaro, dell’autorità e della maggioranza. L’errore giudiziario non è un imprevisto dell’umana fallacità, ma un preciso disegno dell’iniquità della legge e dell’ottusità funzionale del giure.
Dal tempo di Ugo Betti, autore di “Corruzione a palazzo di giustizia”, sono all’ordine del giorno: ritardi, violazione di norme, reati d’ingiuria e diffamazione, negligenze, provvedimenti abnormi, abuso della qualità e della funzione di giudice, nonché reati di corruzione e reati comuni, che testimoniano una devianza della popolazione giudicante molto superiore a quella della popolazione civile. A questa devianza non sfugge il genere femminile che rappresenta ormai più della metà della magistratura ordinaria. Pare che la selezione nella funzione di giudice sia idonea a scegliere i cittadini peggiori, né la legge s’incarica di predisporre filtri selettivi capaci di cercare individui provvisti di alta moralità. A questo si aggiunge che la pletora di leggi – spesso contraddittorie – il subisso di norme a protezione del potere, incatenano anche i pochi onesti, affocano il sistema che produce impunità per i dominanti, e agevolano la produzione di sentenze lunari di cui è incredibilmente scadente la qualità.
Tuttavia, il compito dei magistrati è splendidamente adempiuto. Oltre a produrre una velenosa giustizia civile dai tempi biblici, un’offensiva giustizia amministrativa e del lavoro, genera una popolazione carceraria composta per un terzo da detenuti stranieri, e divisa più o meno equamente tra ladruncoli, tossici e violenti, cioè proprio i puniti per quei reati con cui s’intenderebbe attenuare la disuguaglianza sociale o permettersi l’evasione da essa. Solo lo 0,6% i detenuti per reati finanziari, e si contano su una mano quelli per corruzione. In Germania sono 20 volte di più. E con una conflittualità sociale e di genere gigantesche, i parrucconi della Cassazione e della Consulta, occupate in pianta stabile da mafie regionali, restano arretrati più di mezzo secolo sulla società civile. Quid plura!
Al presidente della Repubblica, al Ministro della Giustizia, alla Corte di Cassazione e alle Corti d’Appello, ai procuratori generali, ai magistrati delle procure generali e ai rappresentanti dell’Avvocatura, auguro il mio personale buon fine d’anno. E avverto il cittadino Bonafede, che se il sistema si limita a deridere i ministri a 5 stelle, ma in fin dei conti li sopporta, è solo per il loro scadente contributo ideologico, è per la loro incapacità a individuare e dunque a sovvertire l’ordine sociale.