Un ricordo toccante di Stefano Voltolina, il 26enne che non reggendo il peso della detenzione si è ucciso lunedì sera nel carcere Due palazzi di Padova (leggi). È quello reso da una insegnante, Manuela Mazzacasa, che era stata professoressa di Stefano alle medie per poi incontrarlo nuovamente, anni dopo, in veste di volontaria nella biblioteca del Due Palazzi di Padova.
Si tratta di una lettera che oltre a proporre un ricordo di Stefano Voltolina, offre più di una riflessione sul sistema carcerario italiano, sulla sua funzione di correzione e recupero del detenuto. La proponiamo in forma integrale.
Stefano, un altro ragazzo che si è tolto la vita in carcere
di Manuela Mezzacasa, volontaria di Granello di Senape-AltraCittà presso la biblioteca della reclusione Due Palazzi di Padova
Mi ha chiamato ieri sera Rossella, una volontaria della biblioteca, per dirmi che Stefano Voltolina si è suicidato al Due Palazzi, dove era ristretto da pochi mesi, al primo piano. Doveva avere 26 o 27 anni.
L’ultima volta che l’ho intravisto, era lui, camminava mestamente davanti a me nel corridoio con un agente, ma quando sono arrivata davanti al cancello erano spariti. L’avevo riconosciuto dalla camminata e dalla figura, piuttosto massiccia.
In biblioteca invece mi avevano colpito lo sguardo e il modo di muoversi: erano arrivati in due, l’altro piuttosto sguaiato, lui taciturno, mi aveva fatto tornare in mente un mio alunno delle medie di tanti anni prima. Poi qualche frase e ci siamo riconosciuti. “Prof, ma aveva i capelli lunghi e biondi…” Già, e lui era un ragazzino molto speciale.
Ci era capitato tra capo e collo all’inizio dell’anno, affidato a una casa famiglia del Villaggio S.Antonio, la scuola media dove inserirlo era la nostra. Alla prima riunione con l’équipe mi ero veramente arrabbiata: come potevano immaginare che saremmo stati in grado di gestire un caso così impegnativo… Mai frequentato regolarmente la scuola, nessuna idea di cosa fosse un qualsivoglia regolamento, ecc…ecc…
Eppure… Anch’io sono scappata da scuola in seconda elementare, forse qualcosa mi avvicinava a lui, o era lui a farsi benvolere. E’ stato mio alunno per due anni, prima e seconda media, alla fine ce l’avevamo quasi fatta. Certo, ogni tanto usciva dalla classe e allora… inseguimenti per i corridoi e le scale, molto pericoloso, ma i ragazzi della Santini non si sono mai divertiti tanto. Decidemmo di essere sempre in due, per non dover abbandonare lui o gli altri; il preside stava in classe con noi nelle ore senza insegnante di sostegno. Poi l’abbiamo bocciato, devo dire così perché il voto è di maggioranza, ma ovviamente non ero d’accordo.
Così l’anno dopo lui aveva perso i compagni, che nel frattempo gli si erano affezionati, e gran parte degli insegnanti. Un giorno, durante una lezione, vedo i ragazzi di fronte a me irrigidirsi e guardarmi con occhi spalancati. “Ragazzi, cosa succede?” “Prof, c’è Stefano…” Seguo i loro sguardi e lo vedo, fuori dalla finestra, sul cornicione che collegava tutto il primo piano della facciata. Era venuto a salutarci, uscendo dalla finestra della sua aula e raggiungendo la nostra, ci sorrideva, questo era Stefano. Ma chi era Stefano?
Spesso mi aveva parlato di sé e della sua famiglia, veniva da Chioggia, suo padre pescatore. (“Prof, ma non sa cosa sono le tegnue?”) Il suo mondo erano il mare e un cantiere di sfasciacarrozze dove passava le giornate con una banda di ragazzini, invece di andare a scuola. Lui sapeva più di me, senza dubbio. Scriveva bene, era sveglio, curioso, buono, si può dire?
Ho conosciuto la madre e il padre, gli volevano bene, non ce la facevano a stargli dietro, non ricordo quanti figli avessero. Certo Stefano per due volte riuscì a raggiungere Chioggia in bicicletta, fuggendo dalla casa di Noventa Padovana. Mi diceva “Non vedo l’ora di avere diciotto anni” “E cosa farai?” Rideva “Torno a Chioggia”.
Con i miei alunni avevamo un’abitudine, se avevano trovato un libro interessante potevano consigliarlo a me e ai compagni. A Stefano avevano regalato l’autobiografia di una velista che a diciotto anni aveva circumnavigato in solitario, vincendo la competizione. Non so se l’avesse letta davvero, ma me la portò. Ero scettica, ma la lessi e mi piacque molto.
Ecco, in mezzo ai libri ci siamo ritrovati, per poco. Tre volte è sceso in biblioteca durante il mio turno: abbiamo parlato, dei suoi progetti, la musica, la scrittura. Il secondo giovedì si interessò al concorso di poesia che stava per scadere; con la collaborazione di Enrico riuscimmo a spedire per il rotto della cuffia una poesia dedicata a una ragazza. Il ritmo era giusto, diedi solo qualche aggiustatina con il suo consenso, spero si possa recuperare.
Il terzo giovedì mi portò tre fogli scritti a mano, con riflessioni filosofiche (se non sbaglio la settimana prima aveva preso un testo di Nietsche): volle che le leggessi insieme a lui, lo facemmo. Gli chiesi spiegazioni di varie espressioni, e lui mi diede le sue risposte. Stamattina, riguardando i fogli che lui insistette per lasciarmi, con mio marito concordammo che erano un collage di frasi selezionate da testi filosofici, quelle che lo avevano colpito, credo, in cui si riconosceva.
Ci lasciammo con un piccolo progetto di lavoro a tre: Tiziano avrebbe raccontato le sue storie, Stefano le avrebbe scritte (“Io non me la sento di raccontare la mia storia”, “Ma non ti preoccupare, tu scriverai le storie che Tiziano racconta”, “Allora ok”), io avrei fatto il mio mestiere di correttrice. Mi piaceva, apriva una prospettiva diversa anche al mio ruolo lì dentro.
Non l’ho più rivisto.
Cosa posso dire adesso? Abbiamo fallito, come altre volte. Facciamo almeno qualcosa per non dimenticarcelo, il nostro fallimento. Di lui, di Stefano, io non mi potrò mai dimenticare.