Di Enrico Franceschini (Repubblica.it) – “I palestinesi sono il peccato originale di Israele”, mi disse Shimon Peres, il laburista che era stato braccio destro del fondatore dello Stato ebraico David Ben Gurion, poi artefice del deterrente nucleare, quindi ministro degli Esteri, premio Nobel per la pace, primo ministro, e che infine, anni dopo la nostra intervista, sarebbe diventato presidente della repubblica. “Perché nel 1896, quando Theodore Herzl, l’ideatore del sionismo, coniò lo slogan ‘un popolo senza una terra va a una terra senza un popolo’, su quella terra un popolo c’era già, gli arabi”, spiegò Peres. “E per mondarci dal peccato, noi ebrei abbiamo soltanto una strada: dare loro uno Stato”.
Gira attorno a questo dilemma il conflitto secolare che, dopo l’attacco senza precedenti di Hamas definito “l’11 settembre israeliano”, ha messo in moto a Gaza una guerra in grado di incendiare il Medio Oriente e destabilizzare il mondo. Paradossalmente, proprio a partire dall’attacco all’America di Al Qaeda nel 2001, il conflitto israeliano-palestinese sembrava avere perso la priorità, oscurato da altre crisi, la guerra in Afghanistan e in Iraq, il programma nucleare iraniano, il terrorismo dell’Isis, per non parlare delle aggressioni russe e della sfida cinese.
La deflagrazione di questi giorni lo riporta in primo piano come uno dei nervi scoperti più delicati negli equilibri internazionali, ma non solo: pure come il simbolo di un’etica di sapore quasi biblico. Risolvere il conflitto, infatti, non è necessario soltanto per israeliani e palestinesi, “due piccoli popoli senza una goccia di petrolio”, come li descrisse cinicamente qualcuno, ma per la coscienza del mondo civilizzato: perché esso rappresenta la somma di due ingiustizie e, come tale, mescola ragioni e torti fra entrambe le parti, rendendo estremamente complicato scioglierne il nodo.
Una ingiustizia che dura da duemila anni
La prima ingiustizia dura da duemila anni: l’antisemitismo che ha colpito gli ebrei con massacri, persecuzioni e discriminazioni costanti, culminato nel criminale progetto nazista di farli completamente scomparire con la Shoa, o Olocausto come è altrimenti chiamato lo sterminio di sei milioni di ebrei nei campi di concentramento di Hitler. Un antisemitismo che non sempre ha avuto forme violente, talvolta è perfino inconsapevole, e di cui la Chiesa cattolica è stata uno dei responsabili: ci volle papa Giovanni Paolo II, nel suo viaggio a Gerusalemme del 2000, per chiedere scusa “ai fratelli maggiori dei cristiani” per venti secoli di oppressione. Prima ancora che l’odio razziale raggiungesse le camere a gas, Herzl vede come unica soluzione quella di creare uno Stato ebraico nella Terra Promessa a cui Mosè conduce il suo popolo secondo l’Antico Testamento, un racconto biblico radicato nella storia reale. Lì, un millennio prima di Cristo, si era sviluppato il regno di Israele di re Davide e re Salomone. Da lì gli ebrei non se n’erano mai del tutto andati, pur diventando minoranza. E lì gli ebrei tornano, sospinti dal sionismo: da Sion, nome del monte che sorge poco lontano dal Muro del Pianto, appena fuori dalla Città Vecchia di Gerusalemme. La scintilla è il processo ad Alfred Dreyfus, un ufficiale ebraico dell’esercito francese erroneamente condannato all’ergastolo per tradimento.
Il via libera viene nel 1917 da Lord Balfour, ministro degli Esteri britannico, che incoraggia la costituzione di “un focolaio nazionale ebraico in Palestina”, la regione così denominata dagli antichi Romani, passata dall’Impero ottomano al Regno Unito dopo la Prima guerra mondiale. Nel quarto di secolo successivo, immigrati ebrei comprano terre in Palestina. La convivenza con gli arabi diventa progressivamente più difficile, risultando in aggressioni reciproche. Per rimediare, dopo l’orrore della Shoa, nel 1947 le neonate Nazioni Unite approvano con 37 voti (inclusi quelli di Stati Uniti e Unione Sovietica, potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale) a 13, con 10 astensioni, la spartizione della Palestina britannica in due Stati: uno per gli ebrei, uno per i palestinesi.
Il compromesso salomonico
Un compromesso salomonico, che gli ebrei accettano ma i palestinesi rifiutano: se l’Occidente si sente colpevole per l’Olocausto, è il loro ragionamento, perché devono essere gli arabi a fare posto agli ebrei? Dal loro punto di vista, qui ha inizio la seconda ingiustizia. D’altra parte, dove possono andare gli ebrei, se non nella terra dei padri? E quello del ’47 è un mondo con una mentalità ancora coloniale, in cui le potenze della terra sono abituate a tracciare confini su una carta geografica con un tratto di penna, come avevano fatto Gran Bretagna e Francia spartendosi il Medio Oriente nel 1916, o più di recente Roosevelt, Stalin e Churchill dividendo in due l’Europa al summit di Jalta nel 1945. Il risultato è che la guerra civile tra ebrei e palestinesi diventa guerra a tutti gli effetti fra ebrei e arabi.
La guerra tra ebrei e arabi
La dinamica è spesso simile. Egitto, Siria e loro alleati attaccano Israele, Israele risponde, o previene l’attacco, e prevale. Scoppia praticamente una guerra ogni decennio: nel 1948 (portando alla nascita dello Stato di Israele, in circa metà del territorio della Palestina britannica), nel 1956, nel 1967 (la “guerra dei Sei Giorni”, come viene ribattezzata dal comandante israeliano e futuro premier Yitzhak Rabin, evocando i tempi della creazione della Terra nella Bibbia per la rapidità con cui lo Stato ebraico consegue la vittoria), nel 1973 (la guerra dello Yom Kippur, in cui Israele inizialmente viene colta di sorpresa, proprio come è accaduto in questi giorni), nel 1981, a cui seguono dal 1987 al 1993 la Prima Intifada, una rivolta con le pietre, tirate da giovani palestinesi all’esercito israeliano, dal 2000 al 2005 la Seconda Intifada, dove le pietre sono sostituite da attentati suicidi, e dal 2006 a oggi le cosiddette “guerre di Gaza”, dove ad attaccare Israele sono Hamas e altri gruppi fondamentalisti islamici.
Terrorismo e negoziati
Nel frattempo, due fenomeni si intersecano con la guerra. Uno è il terrorismo: attacchi contro istituzioni pubbliche o privati cittadini, in Israele o dovunque siano gli ebrei nel mondo, con dirottamenti di aerei e navi, autobombe, sparatorie. L’altro è il negoziato per dare uno Stato ai palestinesi e mondare Israele dal “peccato originale”, secondo la definizione di Shimon Peres. Va ricordato che l’obiettivo iniziale dei Paesi arabi è solo quello di “ributtare a mare gli ebrei”: tanto è vero che per vent’anni, dal 1948 al 1967, quando la Striscia di Gaza appartiene all’Egitto e la Cisgiordania alla Giordania, i governi del Cairo e di Amman se le tengono strette invece di creare uno Stato palestinese.
È l’occupazione israeliana di Cisgiordania e Gaza, dal ’67 in poi, ad accrescere la consapevolezza di un’identità nazionale palestinese e, in parallelo, a sospingere una trattativa per realizzarla, con la mediazione degli Stati Uniti. Nel 1979 il presidente egiziano Sadat firma con Israele una pace che prevede passi per dare “un’autonomia” ai palestinesi: ma due anni dopo Sadat viene assassinato al Cairo da un estremista egiziano, contrario alla pace con gli ebrei.
Nel 1993 il premier israeliano Rabin stringe la mano ad Arafat avviando un processo che in cinque anni dovrebbe dare uno Stato ai palestinesi: “La terra del latte e del miele non deve diventare la terra delle lacrime e del sangue, la pace si fa con i nemici, non con gli amici”, dice l’ex-comandante israeliano della guerra dei Sei Giorni alla cerimonia sul prato della Casa Bianca, che fa vincere a lui, ad Arafat e a Peres il Nobel per la pace, come lo avevano vinto l’egiziano Sadat e il premier israeliano Begin. Ma due anni dopo Rabin viene assassinato a Tel Aviv da un estremista israeliano, contrario alla pace con gli arabi.
Nel 2000 Ehud Barak, un altro premier israeliano, come Rabin laburista ed ex-generale pluridecorato, offre ad Arafat uno Stato palestinese in Cisgiordania e a Gaza, con Gerusalemme Est come capitale, ma Arafat rifiuta imputandosi sul “diritto al ritorno”: la pretesa che mezzo milione o più di palestinesi sparsi per i campi profughi del Medio Oriente tornino alle case che avevano in Israele prima della guerra del 1948, anziché eventualmente trasferirsi nel nuovo stato di Palestina. “Accetti questa offerta, Abu Ammar”, dice ad Arafat, chiamandolo con il suo nome di battaglia, l’ambasciatore saudita a Washington nell’ultimissima fase del negoziato, mediato da Bill Clinton, “la accetti ora o rimpiangerà per sempre di averla respinta”. Ma Arafat dice di no. Da quel momento ci sono altre trattative con i palestinesi, qualche accordo, un paio firmati dal “falco” Benjamin Netanyahu nei suoi primi anni al potere.
Alla pace con l’Egitto, Israele aggiunge trattati di pace con Giordania, Emirati Arabi, Bahrein, Marocco e sta negoziandone uno con l’Arabia Saudita, ma trascura la pentola a pressione che ha sulla porta di casa, i palestinesi, ora di nuovo esplosa.
Il potere di Hamas
Intanto, nel 2004, Arafat muore di malattia. Nel 2005 Israele si ritira completamente da Gaza, smantellando una dozzina di insediamenti civili e le sue basi militari. Nel 2006 Hamas, classificato come organizzazione terroristica dagli Usa e dalla Ue, finanziato dall’Iran e dagli Hezbollah libanesi, vince le elezioni legislative palestinesi e prende il potere a Gaza.
Il mese prossimo Mahmud Abbas detto Abu Mazen, da due decenni al governo dei Territori Autonomi ottenuti dai palestinesi negli accordi del ’93 (circa il 20 per cento della Cisgiordania), compie 88 anni: continua a rinviare nuove elezioni, per paura di perdere anche quelle.
Netanyahu è diventato il premier più longevo di Israele, ma alla testa del governo più di destra della storia israeliana, con una politica che ha spaccato il Paese, contribuendo a dare un’impressione di debolezza che sembra fra le cause delle perdite immani sofferte dallo Stato ebraico nell’attacco di Hamas del 7 ottobre. Più di un secolo dopo la nascita del sionismo, il conflitto israeliano-palestinese continua
di Enrico Franceschini (Repubblica.it)