Cold case. Napoli, 1975: la strage di Via Caravaggio | Parte I, i fatti

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La strage di Via Caravaggio; parte della scena del crimine.
La strage di Via Caravaggio; parte della scena del crimine.

Un’intera famiglia sterminata, un cagnolino senza vita ritrovato fra i liquami dei corpi lasciati abbandonati in una vasca da bagno, un clamoroso errore giudiziario su cui, dopo quarant’anni, aleggiano ancora tantissimi dubbi, un assassino rimasto in libertà, un imputato, condannato e poi scagionato, diventato avvocato dietro le sbarre. Un giallo dai contorni horror, penserete, magari la sceneggiatura di una serie TV.

E, invece, tutto questo è successo nel Novembre 1975, al quarto piano di un palazzo che dista poco più di un chilometro dalla casa in cui sono cresciuta. È la strage di Via Caravaggio.

I fatti – L’8 novembre 1975, l’avvocato Mario Zarrelli venne a sapere che sua zia, Gemma Cenname, non si vedeva al lavoro da 8 giorni. Raggiunta la sua abitazione in Via Caravaggio, si rese conto che il campanello della porta d’ingresso era muto, così come l’appartamento che sembrava immerso in un silenzio irreale. Decise, così, di passare – accompagnato da sua moglie Elisa Testa e sua cugina Fausta Cenname – nello studio ostetrico della zia Gemma (in Via Mario Fiore), sperando di poter trovare una copia delle chiavi dell’abitazione… e di riuscire a mettere da parte alcuni documenti che potevano infangarla. Almeno, questa è stata la versione ufficiale, perché i giornali dell’epoca parlarono addirittura di un “feto in un boccaccio da portare via per non si sa bene quale motivo. Nella palazzina di Via Mario Fiore, Zarrelli spiegò brevemente la situazione ad una amica e vicina della Cenname, mostrandole i documenti che aveva prelevato per tutelarne la privacy. Dopodiché, i tre si presentarono negli uffici della Squadra Mobile di Napoli, dove l’avvocato segnalò l’assenza di notizie da parte della zia e di tutta la famiglia.

Ma i vigili del fuoco e i poliziotti che fecero irruzione al quarto piano di quel palazzo al numero 78 di Via Caravaggio non avrebbero mai potuto immaginare la scena che si sarebbero ritrovati davanti: nella vasca, i cadaveri di Gemma Cenname e di suo marito, Domenico Santangelo, che nascondevano il corpicino del loro Yorkshire Terrier, Dick, finito sul fondo; sul letto matrimoniale, avvolto in un lenzuolo e mezzo coperto da un tappeto, il corpo senza vita di Angela Santangelo, figlia di Domenico (avuta dal precedente matrimonio); aveva solo 19 anni. In effetti, il fidanzato della ragazza dichiarerà di aver cercato più volte di telefonarle il 31 ottobre e di essere addirittura andato sotto casa per citofonare, senza mai ricevere risposta. Da questa testimonianza e dall’ultima annotazione sul diario di Angela (22:30 del 30 ottobre) emerse che il pluriomicidio doveva essere avvenuto nella notte tra il 30 e il 31 ottobre. Ma nessuno riuscì a spiegarsi come mai, nonostante tutte queste persone fossero in allarme, la segnalazione in questura avvenne, di fatto, soltanto una settimana dopo.

[Le foto della scena del crimine sono molto forti, potrebbero urtare la vostra sensibilità]

La scena cristallizzata nel tempo si completava con i resti di una cena in cucina (insalata di pomodoro, frittata di maccheroni, tonno e frutta) e due orologi elettrici fermi alle 5 del mattino: l’assassino, infatti, prima di lasciare la casa aveva abbassato l’interruttore generale. Ma, anche qui, i dubbi non sono mai stati sciolti del tutto poiché non è chiaro se gli apparecchi avessero anche una riserva in pile che avrebbe potuto sfalsare questo dato.

Il principale sospettato – Fra i documenti ritrovati nella palazzina di Via Mario Fiore (che Zarrelli non aveva portato via) gli inquirenti notarono una querela – compilata ma mai consegnata – che la Cenname aveva redatto nei confronti del nipote Domenico Zarrelli, fratello di Mario, per maltrattamenti; vennero ritrovati anche dei dépliant scarabocchiati con la firma dello stesso Domenico, all’epoca trentatreenne, studente universitario fuoricorso alla facoltà di giurisprudenza.

Domenico Zarrelli
Domenico Zarrelli durante il processo.

Gli inquirenti misero insieme i pezzi e fecero alcune associazioni logiche: la denuncia indicava cattivi rapporti, i volantini potevano implicare il fatto che il ragazzo frequentasse lo studio della zia e, in effetti, Domenico amava la bella vita, si diceva che portasse avanti un tenore al di sopra delle sue possibilità (anche grazie alla pensione del padre) e che, molto spesso, chiedeva soldi alla zia per foraggiare questo status. Al tempo del delitto frequentava una ragazza giamaicana, una certa S. M. Thompson, ballerina di night, che confermò la versione secondo la quale la coppia, la sera del delitto, sarebbe andata al cinema e poi avrebbe passato la notte a casa di lei. Altri dettagli, però, continuavano a far insospettire gli inquirenti: il fatto che Mario Zarrelli avesse portato via delle carte dallo studio della zia prima di sporgere denuncia (ma, allora, perché non avrebbe dovuto portar via anche la querela? Solo una dimenticanza nella concitazione?); le mani escoriate di Domenico Zarrelli al momento della convocazione in questura, giustificate con un una caduta sulla ghiaia avvenuta spingendo l’auto in panne alcuni giorni prima (fatto riferito anche dalla madre e dalla cameriera, che avrebbero disinfettato quelle ferite); la testimonianza di un sarto che disse di aver riconosciuto l’auto del Santangelo (che non fu ritrovata in garage) proprio rientrando a casa la notte della strage, guidata freneticamente da qualcuno la cui descrizione fisica aveva punti in comune con Domenico Zarrelli.

Quest’ultima testimonianza però, va detto, si rivelò piena di contraddizioni e incertezze, a partire dal fatto che l’auto in questione, una Lancia Fulvia berlina color amaranto, venne ritrovata in stato di avaria (batteria scarica) al porto di Napoli, dove il Santangelo l’avrebbe lasciata dopo aver fatto visita ad un amico, rientrando a casa (dove, infatti, vennero ritrovate le chiavi) con i mezzi pubblici.

Andando ancora più a fondo nelle indagini, stampate nel sangue delle vittime furono individuate delle impronte di scarpa numero 41-42; ma Zarrelli portava il 45-46 (ed era talmente alto da avere difficoltà a guidare la suddetta berlina con comodità, si disse). Erano altri tempi, non esisteva la profilazione del DNA e a stento ci si poteva basare sulle impronte digitali, per cui i criminali erano parecchio più “incauti”: nella casa del delitto vennero, infatti, trovati tre mozziconi di sigarette – marca Mercedes ed MS nel posacenere dello studio del Santangelo e Gitanes senza filtro sul pavimento -, tutti in prossimità dei luoghi delle aggressioni; ma Zarrelli fumava le HB con filtro. Accanto al tappeto della stanza da pranzo vennero rinvenuti dei frammenti di vetro probabilmente provenienti da occhiali da vista; ma Zarrelli non ne faceva uso. E le impronte digitali rinvenute su due bottiglie presenti nella stanza dell’aggressione al Santangelo – non appartenenti alle vittime – non corrispondevano a quelle di Domenico Zarrelli. Ma allora perché fu incriminato e condannato, in primo grado, all’ergastolo?

Una inquilina del palazzo aveva informalmente riferito al commissario di pubblica sicurezza di aver sentito una porta chiudersi al piano di sopra (l’appartamento della strage) verso l’una e mezza di notte. Preoccupata, avrebbe guardato dallo spioncino all’ingresso notando l’ombra di una persona corpulenta. Testimonianza che la donna, successivamente, negò: in quel contesto, in effetti, si accertò che la visuale dal suo spioncino era diversa da quella emersa dal racconto del commissario.

Ma perché un poliziotto avrebbe dovuto mentire?

Un vigile urbano, poi, affermò di aver visto (due giorni dopo la strage) la luce accesa in casa Santangelo verso le tre e mezza del mattino. Ecco perché l’accusa ipotizzò che l’assassino fosse tornato sul luogo del delitto per inquinare la scena del crimine (da cui tutti gli elementi sopracitati che avrebbero scagionato Domenico senza ombra di dubbio). E, d’altronde, la cosa aveva senso: sul lavabo e sulla tazza del bagno erano stati trovati due mosconi morti, forse era stato spruzzato del deodorante per ritardare la scoperta dei cadaveri? E, magari, Mario Zarrelli si era rivolto in questura giorni dopo la già conclamata assenza di notizie da parte della zia per lasciar risanare le ferite sulle mani del fratello? Erano complici?

Il movente – Visto lo scenario in background, il movente della strage fu inquadrato in una richiesta di denaro rifiutata; l’evento, insomma, non sarebbe stato premeditato ma subentrato a causa di un violento scatto d’ira.

La difesa confermò la vita dispendiosa dell’imputato, ma riferì che non aveva mai avanzato richieste di prestiti o regali alla zia, avendo venduto tre mesi prima un appartamento ereditato dal padre, un giudice presidente di corte d’appello, al fratello Vittorio (un noto cardiologo). La cifra ricavata? 14 milioni di lire… tutto in famiglia, insomma.

Domenico Zarrelli venne arrestato dai carabinieri su mandato della Procura di Napoli il 29 marzo 1976. Cinque anni dopo, il colpo di scena: l’assoluzione (prima per insufficienza di prove e, dopo l’annullamento della sentenza da parte della Cassazione, con formula piena; sentenza confermata nell’85 dalla Cassazione) che, nel 2006, gli valse anche un risarcimento per danni morali e materiali di quasi un milione e mezzo di euro.

Nel frattempo, però, anche la cugina Fausta Cenname venne indagata (e assolta) per falsa testimonianza: aveva riferito di essere stata minacciata dai Zarrelli di riportare al processo solo quello che loro volevano.

Il trafiletto dedicato al processo a Fausta Cenname. L'Unità, 1978.
Il trafiletto dedicato al processo a Fausta Cenname. L’Unità, 9 Marzo 1978.

39 anni dopo, un esame del DNA cambierà ancora una volta le carte in tavola: sui reperti conservati dalla Procura, infatti, è stato ritrovato il patrimonio genetico di Domenico Zarrelli, libero da decenni e non processabile nuovamente per il ne bis in idem.

 

I dettagli riguardo alla dinamica della strage nel prossimo capitolo dedicato a questa vicenda.