Sono pochissimi i fatti di sangue italiani irrisolti che hanno superato la prova del tempo: molti sono stati dimenticati, altri sono stati messi alla lente del progresso tecnologico e dei nuovi strumenti che la scientifica ha a disposizione e hanno finalmente trovato una soluzione. Per la strage di Via Caravaggio, però, “neanche dalle moderne tecniche investigative, del tutto ignote all’epoca, sono emersi elementi idonei ad attribuire l’efferato delitto in esame a soggetto noto“, come riferito nel 2015 dal sostituto procuratore Luigi Santulli al momento della richiesta dell’archiviazione.
Gli elementi che ruotano attorno a questa vicenda sono infiniti e varrebbe la pena approfondirli uno per uno (un riassunto abbastanza esaustivo nel primo capitolo dedicato a questa vicenda). Ma le evoluzioni nel lungo periodo sono state anche più imprevedibili e sorprendenti.
La dinamica della strage – Se nulla si poteva studiare, negli anni ’70, a livello di DNA, molto si è potuto fortunatamente sapere, invece, sulla dinamica di quella strage che, per anni, ha fatto parlare del “mostro di Via Caravaggio“. L’assassino avrebbe bevuto un bicchierino di liquore nello studio con Domenico Santangelo, dove l’uomo sarebbe stato colpito a tradimento per primo mentre, ignare, Gemma Cenname preparava la cena in cucina e Angela Santangelo scriveva una lettera al suo (presunto?) fidanzato sul loro letto matrimoniale. L’arma non sarà mai ritrovata (c’è chi parla di una statuetta scomparsa dallo studio del Santangelo, una fortuna bendata) ma la cosa impressionante è il modus operandi: tutte le vittime sono state prima colpite con un corpo contundente e successivamente sgozzate come per assicurarsi al 100% della loro morte; evitando di lasciare scomodi testimoni. Il fatto di modificare la scena del crimine spostando i corpi dal luogo dell’aggressione, poi, è stato visto dagli esperti come “un senso di compassione che induce il killer a distanziarsi simbolicamente dall’accaduto, quasi a ridurlo o negarlo“. D’altronde, anche l’intrattenersi nello studio con il Santangelo esprimeva confidenza e conoscenza, soprattutto perché si parla di un orario serale. La teoria, quindi, è che la famiglia conoscesse l’assassino.
Altro elemento che deponeva a sfavore di Domenico Zarrelli, il principale indiziato e unico indagato: la forza fisica. Trasportare i corpi, ormai senza vita, in altre stanze (oltretutto lasciando evidentissimi segni di trascinamento) e addirittura alzarli per riporli sul letto matrimoniale (Angela si trovava all’ingresso della stanza al momento del delitto) e nella vasca costava fatica; bisognava avere una stazza non da poco (e Domenico l’aveva) o agire in coppia con qualcun altro.
E, in effetti, anche l’ipotesi di un eventuale complice è stata fatta. Sul davanzale di una finestra erano state trovate le impronte di due mani insanguinate; come se il killer si fosse affacciato, ad un certo punto, per avvisare qualcuno che faceva il “palo” in strada. Versione poco plausibile, però, perché all’epoca proprio lì vicino c’era un pub chiamato “Il Rifugio” che chiudeva anche molto tardi, a notte inoltrata. Forse, semplicemente, il killer aveva cominciato un’operazione di pulizia dell’appartamento (motivo per cui aveva anche spostato i corpi) ma, allertato da qualche rumore all’esterno, era scappato cristallizzando per sempre in quel modo la scena del crimine. Furono ritrovati anche qualche goccia di sangue sull’interruttore centrale pigiato per togliere la corrente, la coperta con cui fu soffocato il cagnolino (probabilmente per evitare che abbaiasse), due guanti in lattice (forse usati per spostare i corpi) e il coltello da cucina utilizzato per finire le vittime (Angela aveva anche delle pugnalate al ventre sulle quali si ordirono altre trame). Il tutto, ovviamente, oltre ai reperti già citati nella prima parte di questo articolo: le cicche di sigarette (forse accese ma non fumate del tutto) e le impronte digitali sulla bottiglia di liquore (non utili, sembra, ai confronti).
Domenico Zarrelli fu processato e incriminato sulla base di tantissimi elementi già analizzati, ma c’è un altro tassello del puzzle da incastrare: secondo quanto riferito all’epoca, una volta aveva litigato talmente furiosamente con la sua fidanzata giamaicana che lei era scappata nuda per le scale.
Fatto sta che anche la testimonianza del vigile che aveva lasciato ipotizzare il depistaggio e l’alterazione della scena del crimine venne contestata dalla difesa: quando i vigili del fuoco entrarono nell’appartamento, infatti, notarono che la camera dove fu trovata Angela (quella che avrebbe avuto la luce accesa notata dal vigile due notti dopo il massacro) non aveva lampadari; soltanto un abat-jour che chissà se sarebbe stato percepibile dalla strada. Certo, a notte fonda e con la città immersa nel buio, forse…
Ma cos’aveva portato via, allora, Mario Zarrelli dallo studio della zia Gemma prima di allertare la Squadra Mobile di Napoli?
Il passato della zia Gemma – Si conosceva poco di questa famiglia borghese; qualcosa, però, è subito emerso dalle prime “chiacchiere” dei parenti. Alla famiglia Santangelo non piaceva molto Gemma, anzi; qualcuno era convinto che fosse un’infedele, riportando una sua vecchia relazione prematrimoniale con un giovane turbolento al quale avrebbe dato molto denaro e che si sarebbe arrabbiato una volta vistosi negare questi “regali” dopo il matrimonio. Matrimonio che, per Domenico Santangelo, era arrivato dopo un anno di vedovanza. Addirittura, il suo patrigno insinuò che questo presunto amante fosse proprio Mimmo (Domenico) Zarrelli, il nipote, nonché imputato. Praticamente un incesto. Quello che si sa è che Gemma stava trasferendo – per motivi sconosciuti – parecchi beni di valore in una cassetta di sicurezza; ma perché, allora, non avrebbe dovuto conservare lì anche il materiale “sconveniente” che Mario Zarrelli portò via dal suo studio per preservarne la privacy? E, a proposito, cos’era quel materiale?
Si trattava di foto osè che la donna conservava in quell’ufficio (sua ex residenza) che, successivamente, si riveleranno inquadrature dal collo in giù.
Domenico Zarrelli venne incriminato in primo grado e condannato all’ergastolo per poi essere assolto con formula dubitativa (insufficienza di prove) in appello e nuovamente assolto con formula piena (dopo l’annullamento della sentenza da parte della Cassazione) dalla Corte di Assise di Appello di Potenza “dove la serenità di giudizio non era inquinata”; nell’85, la conferma da parte della Cassazione e, nel 2006, un risarcimento per danni morali e materiali pari ad un milione e quattrocentomila euro.
Molti hanno chiacchierato su questo iter giudiziario: in fondo, “Mimmo” aveva potuto godere dell’aiuto professionale del fratello, che fuori e dentro il tribunale lo ha sempre difeso come un leone; e poi, era figlio di un giudice presidente di corte d’appello… si è pensato, farfugliato ed insinuato di tutto. E quando questa storia è ripiombata nella sua vita con i risultati del DNA del 2014 – che approfondiremo nel quarto ed ultimo capitolo dedicato a questa vicenda – quelle vecchie teorie sono tornate più in auge che mai. Al punto che i fratelli Zarrelli hanno denunciato per diffamazione a mezzo stampa e violazione del segreto istruttorio le testate e i giornalisti che hanno dato la notizia della ripresa delle indagini sulla strage; incluso l’ex direttore Rai Antonio Campo dall’Orto e i giornalisti Bianca Berlinguer, Mario Orfeo ed Ezio Mauro. Chiedendo un risarcimento danni di cinque milioni di euro.
Il temperamento, insomma, non si è “stemperato” con i decenni – tanto per fare un gioco di parole – e nemmeno con la malattia di Domenico che, oggi, lo ha allontanato dalla sua professione di avvocato e lo costringe su una sedia a rotelle.
Qui la loro partecipazione alla trasmissione “Telefono Giallo” di Corrado Augias, antesignana della futura e più longeva “Chi l’ha visto?“.
Ma ci sono stati altri due sospettati che sono usciti molto presto fuori dalle indagini; troppo, per qualcuno.
Le altre piste nel prossimo capitolo dedicato a questa vicenda.