Non basterebbero tomi e tomi di ricostruzioni, analisi e reportage per riassumere nella sua integrità tutta la vicenda della strage di Via Caravaggio.
Dopo aver analizzato i fatti principali e la dinamica del pluriomicidio che sconvolse la Napoli degli anni ’70, vale la pena esplorare tutte le altre – presunte – piste che riuscirono soltanto a sfiorare le indagini e che non entrarono mai a far parte di alcun fascicolo.
Voce ‘e popolo e ipotesi più concrete che, in ogni caso, non furono mai ritenute più interessanti di quel ragazzo turbolento e dalla fisicità imponente, Domenico Zarrelli, nipote di una delle vittime, condannato in primo grado all’ergastolo e poi assolto con formula piena e risarcito per danni morali e materiali.
La pista INAM – Angela Santangelo, al tempo del delitto, era fidanzata con un certo Nicola Sceral; o, perlomeno, questa fu la versione ufficiale. Il ragazzo, che fece anche importanti dichiarazioni, venne definito da qualcuno un fantoccio mandato al processo giusto per testimoniare. Per coprire chi?
Stando alle deposizioni dell’epoca, c’era chi parlava quasi di un matrimonio imminente tra i due e chi non sapeva nemmeno che questo fidanzato esistesse.
Angela lavorava all’INAM (Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro le Malattie) e qualche voce iniziò ad insinuare che avesse una relazione con un medico sposato, un certo Giuseppe De Laurentis, che in questo modo avrebbe coperto la sua relazione; e, addirittura, si vociferava di una non ben identificata gravidanza (interrotta grazie ad un intervento di Gemma Cenname, che faceva l’ostetrica) di cui, però, non è mai stato portato alla luce alcun riscontro. Angela quel giorno era a casa con la febbre (aveva ricevuto anche la visita fiscale), in teoria insieme alla Cenname che si era presa due giorni di ferie; si disse che Domenico Santangelo non avrebbe mai lasciato la figlia da sola. Affermazione discutibile visto che l’uomo se ne andò in giro con la moglie. Un testimone li vide passeggiare insieme nei pressi dello studio in Via Mario Fiore in mise piuttoto eleganti. E non c’erano impegni urgenti da sbrigare: non venne nemmeno chiamato il meccanico per l’auto rimasta in avaria al porto (come mai?).
Neppure sugli scritti di Angela ci sono voci univoche: dopo la strage, la sua borsa ed i cassetti apparivano sottosopra; il diario, secondo qualcuno, venne inizialmente trovato per poi sparire; per altri non fu mai ritrovato e, secondo altri ancora, venne rinvenuto con delle pagine strappate. Ma sorprese il tono sinistro di quella lettera destinata al suo (chissà) Nicola che diceva:
Ciao Nico, ho deciso di scriverti per chiarire alcune cose di noi. Con te ho provato e conosciuto cosa è: la dolcezza, la tenerezza, l’amore, la gioia di trovare te alla fine di una giornata di lavoro, la voglia di stare con te e di non lasciarti mai, la gelosia. Sono le 22:30. Chiudo perché si è fatto tardi e mi auguro di dormire. Riprenderò domani mattina.
La pista dell’ingegnere – Alcuni colleghi di Angela riportarono delle cose inquietanti. Pare che la ragazza nutrisse timori riguardo il suo futuro a causa di un presunto ingegnere: “Io morirò scannata, vedrete… c’è un ingegnere… Madonna mia…“, aveva detto. Aggiungendo, in un’altra occasione: “Qualcuno prima o poi salirà nella nostra abitazione e ci ammazzerà tutti“.
I due coniugi erano proprietari di un casolare/magazzino in campagna a Camigliano (nel casertano, paese d’origine della Cenname) che avevano affittato proprio ad un ingegnere (qualche altra fonte parla di un chimico) senza troppe garanzie; nessuno, in fondo, sapeva chi fosse, tant’è che gli era stato possibile sparire senza pagare l’affitto.
I Santangelo, così, recatisi sul posto per cercare di capire cosa fosse successo, si ritrovarono davanti uno scenario desolante: corde, manette, brandine luride, passamontagna. Dettagli che nell’Italia dell’industria dei sequestri fecero immediatamente pensare al covo di qualche banda, al rifugio di un latitante o persino ad un luogo utilizzato per tenere qualcuno in stato di prigionia.
Dopo la strage furono in tanti, anche privatamente, a mettersi al lavoro su quella strana coincidenza: seguendo le tracce, emerse che la vera identità dell’affittuario era quella di Annunziato Turro, un criminale calabrese finito in carcere un mese dopo i delitti per altri motivi. Turro si rifiutò di rispondere a qualsiasi domanda. Pare che utilizzasse davvero il casolare come rifugio. Certo che dell’ingegnere o del chimico, però, aveva ben poco…
Fatto sta che la città chiedeva un colpevole e le indagini andavano a rilento e non senza errori o ritardi: il corpicino del cagnolino, ad esempio, venne rinvenuto diversi giorni dopo dal ritrovamento dei cadaveri dei Santangelo nel contesto di una seconda perquisizione.
E c’è dell’altro.
Nei primi concitati giorni, a fare capolino nella vicenda era entrato un vero ingegnere: un certo Giovanni Azzariti Fumaroli, che si autoaccusò del crimine. Risiedeva a pochi passi dall’appartamento dei Santangelo e disse che aveva ammazzato tutti con una pistola: versione impossibile da credere vista la dinamica degli omicidi. Venne rilasciato immediatamente, appurando che si trovava semplicemente in un momento di difficoltà psicologica. Anni dopo, nel 2008, lo stesso Fumaroli precisò che non era accaduto niente di tutto questo: avrebbe solo avuto un diverbio con un carabiniere che piantonava il palazzo.
La pista della vendetta – 35 anni prima, Domenico Santangelo era stato capitano di lungo corso; poi, per undici anni era stato amministratore del Rione Lauro, l’agglomerato di case popolari costruite per volere del Comandante Achille Lauro, all’epoca del suo mandato da sindaco di Napoli. Ma una mai chiarita vicenda contabile (il sospetto era che avesse sottratto 28 milioni di lire alle casse dell’impresa) valse a Domenico la perdita della stima del Comandante. Ed ecco perché, al tempo della strage, si arrangiava come rappresentante. Nonostante in famiglia entrassero tre stipendi, le difficoltà erano tante: l’uomo, infatti, amava anche troppo il gioco del lotto, al punto da ricorrere spesso al banco dei pegni (impegnando i gioielli della sua prima moglie, Eleonora Lo Cascio, madre di Angela) o ai prestiti della figlia (come risultò da alcuni appunti della ragazza).
Durante le indagini venne anche a galla una storia alquanto inquietante: Domenico Santangelo era rimasto vedovo due anni prima. Il motivo? Una iniezione maldestra da lui stesso praticata alla moglie malata. Un anno dopo era già convolato a nozze con Gemma, la donna dal “passato turbolento” che non piaceva ai suoi familiari e che aveva conosciuto attraverso gli annunci di un quotidiano. Ecco perché alcuni parlarono di una possibile vendetta o di un ricatto finito in tragedia. Si vociferava anche del fatto che la relazione tra i due fosse cominciata mentre Domenico era ancora sposato e che, per questo, non c’erano buoni rapporti tra Angela e la sua matrigna.
Oltretutto, l’ultimo impiego dell’uomo (rappresentanza per un’azienda di insetticidi e detersivi nell’avellinese) portò ad una ditta, con sede centrale in Germania, della quale la Procura di Napoli non riuscì mai a rintracciare il nome. Voci dicevano che si guadagnasse da vivere facendo occasionalmente l’informatore della polizia e pare avesse anche una pistola. Che l’iniezione sbagliata alla prima moglie fosse stata voluta. Una sentenza giudiziaria lo definì una persona con alle spalle “50 anni di vita oscura“.
Tutte queste piste vennero – forse sconsideratamente – accantonate. Anzi, le impronte di Turro non furono mai confrontate con quelle sulla scena del delitto e, mentre prendeva forma l’idea che il capo di Angela avesse perso la testa per lei al punto da maturare una vera e propria ossessione nei suoi confronti (abitando per giunta nel suo stesso palazzo) e una perquisizione domiciliare stava per avvenire a suo carico il 25 marzo ’76, il PM Italo Ormanni arrestò Domenico Zarrelli bruciando ogni altra via.
L’epilogo della sua vicenda giudiziaria ha presentato più di un colpo di scena – come già accennato e come vedremo nel dettaglio nel prossimo ed ultimo capitolo dedicato a questa strage – ed è proprio per questo che farsi un’idea precisa di quanto sia accaduto realmente fra le stanze di quell’appartamento al quarto piano del numero 78 di Via Caravaggio, a Napoli, è ancora più difficile.
L’epilogo e il colpo di scena finale nel prossimo ed ultimo capitolo dedicato a questa vicenda.