L’Italia ha una storia criminale che non è fatta, in generale, di serial killer e omicidi truculenti. Al netto delle dovute eccezioni – che, in quanto tali, si creano sempre una eco potentissima in tutto il mondo -, nel nostro Paese si è sempre parlato maggiormente di corruzione, ‘ndrangheta, mafia, camorra; di un tessuto criminoso e criminale che lavora underground, sottotraccia, alle spalle e a danno dello Stato, a volte in sua sostituzione… e a volte anche in combutta con alcuni dei suoi esponenti. Per questo, i fatti di sangue efferati che ci ritroviamo a dover assorbire, e ancora di più i cold case come questo della strage di Via Caravaggio, per noi diventano qualcosa di inaccettabile, di impossibile da interiorizzare, di incredibile nel vero senso della parola, perché non possiamo crederci.
L’evolversi delle vicende giudiziarie relative a questo pluriomicidio avvenuto nella Napoli borghese degli anni ’70 è riuscito a coinvolgere decenni di storia italiana: eppure, dopo quasi 50 anni da quella notte in cui persero la vita Domenico Santangelo, sua moglie Gemma Cenname, sua figlia Angela Santangelo e il loro cagnolino Dick, non siamo ancora stati capaci di dare giustizia alle vittime e pace alle loro famiglie con un nome da condannare “al di là di ogni ragionevole dubbio”.
Dopo aver analizzato i fatti, la dinamica della strage e tutte le possibili piste – prese o meno in considerazione dagli inquirenti -, abbiamo visto come l’unico indagato di questa storia, il nipote della Cenname, Domenico Zarrelli, sia stato inizialmente incriminato e processato, venendo condannato all’ergastolo in primo grado, e successivamente assolto (prima con formula dubitativa e, poi, con formula piena) nonché risarcito nel 2006 con quasi un milione e mezzo di euro per danni morali e materiali. A suo carico una serie di testimonianze ed indizi che, però, non erano riusciti a convincere del tutto; e, poiché si trattava del figlio di un giudice presidente di corte d’appello, nonché fratello di un avvocato – Mario, che gli è rimasto accanto e lo ha difeso, e ancora lo difende, come un leone – e lui stesso studente di giurisprudenza (si laureò dietro le sbarre intraprendendo la carriera una volta scagionato), in città cominciarono a serpeggiare una serie di voci, pettegolezzi, insinuazioni.
Ma qual è stato il vero epilogo di questa vicenda? Cos’è successo nella vita di Domenico “Mimmo” Zarrelli dopo questa chiacchierata assoluzione?
Il colpo di scena – Nel 2011, la Procura di Napoli ricevette una lettera anonima firmata Blue Angel. Alla luce dei progressi tecnologici avvenuti negli ultimi decenni, decise di riaprire il fascicolo della strage esaminando alcuni reperti conservati in archivio: uno strofinaccio imbratatto di sangue e dei mozziconi di sigaretta. Il DNA che emerse fu quello di Domenico Zarrelli. Lo scompiglio generale fu totale. I titoli dei giornali non parlavano d’altro ma, come detto, arrivarono denunce e richieste di risarcimento danni da parte della famiglia Zarrelli. Domenico disse di non essere mai stato sottoposto ad alcun test genetico e bollò la vicenda come un semplice tentativo di infangarlo nuovamente perché “la Procura aveva sbagliato le indagini e voleva vendicarsi“; tantopiù che per il ne bis in idem non avrebbe, comunque, potuto più essere riprocessato per lo stesso crimine, essendo stato assolto e per giunta risarcito anni prima.
La difesa dichiarò anche che non vi era alcuna certezza che i reperti non fossero stati inquinati e che, in ogni caso, Domenico frequentava la casa della zia. Tesi su cui molti ebbero dubbi; ripensando alla querela per maltrattamenti e al fatto che avesse più volte detto che non conosceva il marito della Cenname, Domenico Santangelo: come poteva non conoscerlo se frequentava davvero la loro casa? In effetti, non si è potuto fare a meno di notare un particolare: la strategia difensiva, prima del 2014, aveva puntato tutto sul fatto che “Mimmo” non potesse essere collocabile sul luogo del delitto, nemmeno precedentemente; quei dépliant ritrovati con la sua firma scarabocchiata nello studio della zia venne detto che erano arrivati lì tramite il fratello, Vittorio Zarrelli, il cardiologo. Insomma, Domenico avrebbe scritto presso di lui, e non presso la zia Gemma, su quei volantini. Dopo la scoperta del DNA, invece, le cose si sono capovolte e venne portata avanti la tesi esattamente contraria: alludendo anche al fatto che i reperti potevano, comunque, essere stati contaminati durante le indagini o per cattiva archiviazione.
Ad ogni modo, la vicenda si è conclusa recentemente. E per sempre.
Nel 2015, il GIP del tribunale di Napoli, Livia De Gennaro, ha disposto l’archiviazione criticando apertamente l’attività della Procura. Anche perché i Zarrelli dissero di aver appreso la notizia della riapertura delle indagini dai giornali e non in prima persona.
A fronte della assoluta inaffidabilità degli esiti investigativi, l’unico dato incontrovertibile e certo è costituito dalle sentenze passate in giudicato che hanno assolto Domenico Zarrelli ritenendolo estraneo ai fatti del delitto di via Caravaggio e questa verità processuale, l’unica a cui ogni operatore del diritto è tenuto ad attenersi, avrebbe dovuto indurre a riflettere sulla opportunità di disporre indagini aventi ad oggetto la comparazione del profilo genetico tratto dai capelli attribuiti a Domenico Zarrelli con i reperti rinvenuti.
Livia De Gennaro, GIP del tribunale di Napoli
La strage di Via Caravaggio ha ispirato anche un libro (“Il giorno degli assassini”, di Carlo Bernari) che, ironia della sorte, diventò materiale processuale per la difesa di Zarrelli. L’ipotesi contemplata, in quel contesto, era che la strage fosse stata opera di professionisti, nonché premeditata; tesi ripresa dal collegio difensivo, come rivelato dallo stesso Zarrelli in un’intervista a La Stampa. In quell’occasione disse anche che diventò amico dell’autore, partecipando insieme a programmi TV per parlare del caso.
E c’è anche di più: nel 2013, il coltello da cucina utilizzato per la strage e il plaid con cui venne soffocato il povero cagnolino furono esposti in una “mostra del crimine” a Castel Capuano… diventando, però, per sempre inutilizzabili per successive indagini scientifiche.
Pensate siano finiti i colpi di scena?
Per niente: e le ultime notizie sono molto più che recenti.
Alcuni parenti dei Santangelo avevano detto di aver trovato finalmente un po’ di pace dopo il riscontro del DNA e non riuscivano a farsi una ragione dell’archiviazione del procedimento. Continuando a cercare prove per mantenere viva l’attenzione sul caso. Una nipote aveva chiesto aiuto al proprio legale, l’avvocato Gennaro De Falco, per far sì che i famosi reperti (lo strofinaccio insanguinato e le cicche di sigarette) venissero nuovamente analizzati. Le autorizzazioni c’erano, e controfirmate da due giudici. Ma esibirle agli addetti dell’Ufficio corpi di reato fu inutile: quel materiale era stato distrutto, all’insaputa di tutti. De Falco presentò, quindi, un esposto alla Procura (era il 2016) chiedendo accertamenti su modalità e tempi della distruzione dei reperti. Un cancelliere precisò che tutto era avvenuto in contesto di svuotamento dei locali: i familiari delle vittime – curiosi di capire anche chi si celasse dietro quegli altri due profili genetici individuati sui resti, catalogati come “ignoto 1” e “ignoto 2” – hanno intentato una causa contro lo Stato (2018) con richiesta risarcimento danni e citazione in giudizio del Ministero della Giustizia.
Come per tanti cold case, non esiste una verità assoluta per la strage di Via Caravaggio. È un caso che ha attraversato i decenni, persino due millenni, ma non si è trattato di un delitto perfetto. Un po’ come con i film dal finale aperto, ognuno si è fatto la sua idea.
L’assassino, nel frattempo, ha continuato indisturbatamente a vivere la sua vita in mezzo a noi.
La casa, invece, è stata divisa e venduta: soltanto una piccola parte di quel grande appartamento (che era l’unione di due unità e aveva, infatti, due ingressi) è ancora proprietà degli eredi di Domenico Santangelo. Ma i vicini assicurano di vederli varcare quella soglia non più di un paio di volte l’anno.