Sui 100 anni del PCI, Agorà. La filosofia in piazza: desta ancora interesse il 21 gennaio 1921 per i giovani?

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100 anni PCI
100 anni PCI

Ieri, pensando ai 100 anni dalla fondazione del Partito Comunista d’Italia a Livorno, mi chiedevo se, in effetti, al di là della retorica e della memoria di un evento fondamentale della storia italiana, personalmente sentissi qualche legame con quel passato e se, al tempo stesso, tutto ciò appartenesse ad una tradizione propriamente mia.

Questo pensiero, ovviamente, al di là della venatura nostalgica, che ormai non si stacca più da questa urgenza di scrivere, era poi funzionale alla eventualità, necessaria per un insegnante di storia, di imbastire un discorso rivolto agli adolescenti su quel momento storico in cui in Italia si sentì l’esigenza di creare una sezione staccata del Partito Comunista Sovietico con il sogno di libertà, nel 1921, di replicare una Rivoluzione che portasse gli operai sfruttati a conquistare il potere.

Ecco, a dire il vero, mi sono trovato in difficoltà e così ho fatto passare le ore e poi è passata la ricorrenza, siamo già all’indomani del centenario, e già così mi sento più a mio agio, perché in effetti non riuscirei ad essere convincente su un passato che non mi appartiene perché non vissuto personalmente, se non attraverso la memoria. Tutto ciò che so, infatti, lo so perché l’ho rivissuto attraverso i documenti, i libri, le testimonianze, anche quelle ormai in procinto di uscire definitivamente dalla storia, così come esce inesorabilmente dalla storia, con la dipartita di Emanuele Macaluso, anche l’ultimo pezzo della segreteria del PCI successiva alla Resistenza, alla quale appartenevano Togliatti, Berlinguer, Pajetta.

Eppure, mi accorgo che il discorso ritorna sull’appartenenza, e quindi mi chiedo qual è il senso di appartenenza che sentono i giovani di oggi, di cosa si sentono partecipi, ma in questo senso la questione, inevitabilmente, investe anche gli adulti. Si può sentire un legame di appartenenza ad un partito che non esiste più? È sufficiente un pugno chiuso e chiamarci “compagni e compagne” per sentirsi partecipi di quella storia? Si può ancora sentire, in maniera più generale, un legame di appartenenza ad un partito?

Nel corso dell’ultimo secolo si è progressivamente sopito il coinvolgimento e la militanza dei giovani nelle varie formazioni politiche. Un tempo quella partecipazione costituiva la fucina e il laboratorio di idee genuine di giovani e meno giovani, tutti coinvolti nel tentativo di trovare le soluzioni migliori al funzionamento della macchina statale. E bisogna dire che anche il livello del dibattito era abbastanza acceso tra le formazioni politiche giovanili, dibattito che talvolta si risolveva in scontro fisico tra fazioni contrapposte. Certo, è una illusione pensare di vivere in un ambiente socialmente pacificato solo perché non assistiamo a scontri di natura politica tra i giovani, giacché è abbastanza evidente che quella dose di violenza è solo stata trasferita su altri piani, per esempio quello religioso, quello sportivo, dove il radicalismo e il fanatismo sono sempre dietro l’angolo.

A questo proposito mi veniva in mente un testo di SavaterPolitica per un figlio[1], in cui l’autore distingue due forme fondamentali di stare al mondo: l’appartenere e il partecipare. Appartenere ad un gruppo è un atteggiamento comune per sentirsi protetti e autoriconoscersi all’interno di una famiglia, di una comunità di valori, di lingua e di costumi, circostanza che, se estremizzata, conduce anche a forme di radicalizzazione come il razzismo, la xenofobia, il nazionalismo. D’altro canto la partecipazione alle formazioni sociali, che nell’antica Atene era obbligatoria per i cittadini liberi, oggi si esprime, al più, attraverso la rappresentanza elettorale. Forse è proprio in questo meccanismo, pur necessario per far funzionare le amministrazioni, che si annida il principio del disinteresse dei cittadini nei confronti della politica; l’assenza del vincolo di mandato, i conflitti d’interesse e le incomprensibili dispute di Palazzo fanno tutto il resto.

Dai libri di storia veniamo a sapere che nel 1921 il Partito Comunista si prefiggeva lo scopo di permettere il raggiungimento della libertà all’interno di una società più equa e tutto ciò i protagonisti, penso ad Antonio Gramsci, Umberto Terracini, lo testimoniavano personalmente con responsabilità, per mezzo di un coerente profilo intellettuale e morale, da cui oggi la politica sembra abbastanza lontana.

Vorrei essere ottimista come Savater e rivolgere alle mie figlie, così come a tutte le ragazze e i ragazzi, un accorato appello alla partecipazione politica per pensare ad una società migliore, evitando la solita solfa della corruzione dilagante e dell’incompetenza dei politici, ma la verità è che appartenenza e partecipazione si sono ormai congedate da questo mondo e anche per noi adulti non hanno più grande significato.

Ad ogni modo, quando poi ieri mattina sono andato a scuola per il laboratorio di modellistica della III professionale settore moda, tra un punto di imbastito e un colpo alla taglia-e-cuci, io sommessamente ho detto alle ragazze: «Oggi è 21 gennaio, ricorre il centenario della nascita del Partito Comunista Italiano». Loro si sono guardate tra di loro un po’ sbigottite, non so se per il contenuto del messaggio o per il fatto che avessi parlato, ma poi una ha preso coraggio e ha detto, giustamente, aggiungerei: «E non minderessa»….c.v.d.

[1] F. Savater, Politica per un figlio, Laterza, Roma-Bari 2010.


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a cura di Michele Lucivero

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