Nel Libro della Genesi, troviamo ben dieci parole attraverso cui Dio ha creato il mondo. Il primo racconto della creazione si apre con un ritmo quasi liturgico: E Dio disse….e fu. Per dieci volte assistiamo ad un Dio che dice, ad un Dio che parla. E il numero dieci ritorna anche nelle generazioni da Abramo a Noè, come anche nel Decalogo, nelle Dieci Parole che Dio dona a Mosè, dopo l’uscita dall’Egitto, e così via.
Si tratta, insomma, di un elemento ricorrente, che fa da filo rosso nella narrazione biblica. Un filo rosso che intesse la Parola di Dio, la creazione, la generazione, l’alleanza. Elementi che è impossibile leggere senza una unità di fondo, data appunto dal numero dieci. Una unità di fondo che indica il legame profondo che esiste fra creazione e generazioni dentro l’alleanza dell’essere umano con Dio. Ma se questo argomento è più di carattere teologico, ci vogliamo soffermare sulla soglia filosofica che ci viene donata dal commento dei rabbini a questo elemento. Infatti, in un commento rabbinico scritto da Maimonide, leggiamo: «Certamente la Scrittura avrebbe potuto narrare tutta la creazione in un solo detto, ad esempio: “E Dio disse: Siano i cieli e la terra, sia il firmamento, si radunino le acque, eccetera”. Tuttavia ha preferito usare un singolo detto per ognuno di questi argomenti, al fine di rendere nota la grandezza di tutto ciò che esiste, e la bellezza del suo ordine. Cosicché chi lo rovina, rovina una cosa grande; chi invece lo ripara, ripara una cosa grande. Con “chi lo rovina” intendo dire: chi rovina la propria anima, che è in potere di ciascuno sia di correggere sia di rovinare, ed è il fine ultimo di tutta la realtà sulla quale Dio ha pronunciato le dieci parole».[1]
Sarebbe bastata anche una sola parola di Dio per creare il mondo, ma ne ha utilizzate dieci, quasi ad indicare una pluralità insita nella creazione stessa. Ma non solo una pluralità di forme, di enti e di elementi, ma soprattutto una pluralità di relazioni ed interrelazioni fra gli esseri viventi.
Ed è questo ciò che interessa maggiormente ai rabbini e, nel nostro caso, a Maimonide. Una pluralità di esseri viventi che intessono fra di loro relazioni, quasi a creare una rete o, per utilizzare un termine alla moda, un rizoma. E la pluralità delle relazioni materiali fra gli esseri viventi, ecco che genera sistemi che entrano in relazione fra di loro, aumentando la complessità della vita e spingendo verso evoluzioni nuove.
Tuttavia, man mano che aumenta la complessità, aumenta anche la delicatezza del sistema e delle relazioni che si vengono a creare. Dieci Parole, allora, in cui basta osservarne o trasgredirne anche solo una da mettere in crisi tutto il sistema. Ma anche Dieci Parole, per cui una viene in aiuto dell’altra, creando un sistema olistico, in cui uno viene in aiuto dell’altro, completandosi.
E, allora, come gestire questa pluralità, nel nostro mondo contemporaneo in cui ci siamo accorti di come un virus che nasce in una parte del mondo produce, nel giro di pochi mesi, una pandemia mai vista prima?
La strada che ci indica la riflessione di Maimonide è precedente a qualsiasi forma liturgica o rituale o cultuale che possiamo pensare. Si tratta, infatti, di organizzare la propria anima, l’unico spazio di autentica libertà che ci viene dato concretamente. Tutte le altre libertà dipendono da questa organizzazione dell’anima, che non si contrappone alla materia ma ne è tratto speculare, il riflesso meta-fisico, oltre ciò che è fisico e che riusciamo a vedere.
Una materia, l’anima, che possiamo modellare, gestire, trasformare, plasmare o lasciar manipolare da altri. E questa si chiama spiritualità, intesa come forza che incide nell’anima, che plasma la materia dell’anima e che la trasforma.
Così, trasformando noi stessi, evolvendoci, riusciamo a dare forma al mondo circostante. Generare e rigenerare, attività che ci avvicina al Creatore. Uscendo da questa pandemia, forse, la sola cosa di cui abbiamo bisogno per cambiare è proprio una spiritualità in grado di cogliere i nessi profondi fra tutti gli esseri viventi, di farci sentire all’interno di un cosmos, di una materia che si evolve ed, evolvendosi, si trasforma, si amplifica, si complessifica. Ci unicizza, ricordandoci cosa significhi essere fra l’immagine e la somiglianza di Dio.
[1] Aa. Vv., Detti dei rabbini. Pirqè Avot con i loro commenti tradizionali, A. Mello (a cura di). Qiqajon, Magnano 2016, p. 168.
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