È rimasto in mutande. Ha perso il lavoro e la casa. Eppure ieri è stato assolto. Alberto Muraglia, 57 anni, era diventato il simbolo dell’inchiesta sui “furbetti del cartellino” del Comune di Sanremo. Tutta colpa di quel video che nel 2015 ha fatto il giro d’Italia: il vigile urbano che timbra in slip. “Più colpevole di così”, si erano detti in tanti. Erano intervenuti anche premier e ministri: “Quando a Sanremo vedi quello che timbra in mutande non è un optional il licenziamento. Questa è gente da licenziare entro 48 ore”. In quel giorno di ottobre, 42 persone erano finite ai domiciliari o con l’obbligo di firma (tanti sono stati poi licenziati). Finora 16 imputati hanno patteggiato pene fino a un anno e sette mesi. Proprio ieri altri 16 imputati sono stati rinviati a giudizio. Insomma, l’inchiesta tiene.
Per dieci, però, le accuse sono crollate: il “fatto non sussiste”, nessuna truffa ai danni dello Stato. Tra loro c’è proprio Muraglia. Il giudice ha creduto alla ricostruzione dell’avvocato Alessandro Moroni: “Il vigile svolgeva gratuitamente anche il lavoro di custode del mercato, per questo gli era stato dato in cambio l’alloggio. La timbratrice era proprio accanto all’abitazione. Per quattro volte in un anno è capitato che Muraglia abbia timbrato mentre si vestiva o abbia chiesto alla moglie di farlo perché non poteva. Esattamente come fanno tutti i vigili di questo mondo che prima timbrano e poi indossano la divisa. Ma, come abbiamo dimostrato, pochi istanti dopo era già in servizio e faceva multe. Non ha rubato un euro all’amministrazione”, racconta Moroni. Ma se ti aspetti toni trionfalistici da Muraglia, sbagli. C’è un’ombra di amarezza nelle sue parole: “Sono sollevato, non sorpreso: ho subìto quattro anni e mezzo di tortura mediatica per colpe che non avevo. L’avevo sempre detto”. Tra quella foto in mutande e l’uomo che ieri aspettava la sentenza c’è passata una vita: “Mi hanno licenziato e ho perso la casa”, racconta Muraglia, “Sono stato costretto a cambiare vita, a sopportare e far sopportare ingiustamente alla mia famiglia derisioni e mancanze di rispetto. Nessuno potrà restituirmi questi anni. Timbrare in mutande mi ha trasformato in un simbolo… ho peccato di malcostume, forse di scorrettezza amministrativa, ma non ho truffato lo Stato. È stata riconosciuta la verità”.
Adesso Muraglia non lo trovi più per strada o a palazzo Bellevue, l’edificio Liberty che ricorda i fasti passati di Sanremo e oggi è sede del Comune. È al piano terra di un palazzo di via Martiri. Intorno a lui chiavi inglesi, trapani, martelli. Alberto oggi fa ‘l’aggiustatutto’, così si presenta sui bigliettini che ti porge: “Perché buttarlo invece che ripararlo?”. Aggiusta arnesi ed elettrodomestici. Non si piange addosso. Ha in piedi una causa di lavoro, ma non ne parla. Non vuole polemiche.
“Voglio solo voltare pagina”, dice. Addio divisa. Ma soprattutto, spera Alberto, addio a quella foto in mutande.
di Ferruccio Sansa da Il Fatto Quotidiano