Il vecchio adagio “Quando si ha tempo non si hanno soldi, quando si hanno soldi non si ha tempo” non ha più molto senso d’esistere. Parlando tra amici una sera – ovviamente online – è emersa la comune percezione di sentirsi sopraffatti dall’orario lavorativo, tanto da andare in ansia per la rinuncia ai propri interessi e a tutte quelle cose che ci rendono persone, e non macchine. È una sensazione che ho riscontrato tra parecchi coetanei. Nessuno di noi è particolarmente svantaggiato – se escludiamo l’essere donna – e non abbiamo figli: eppure cominciamo anche noi a sentirci stritolati dalla time poverty, il fenomeno del nostro tempo che, per effetto del legame con minori livelli di benessere e salute, sta minando non solo la qualità della nostra vita ma la nostra salute. Ci sembra costantemente di avere troppe cose da fare e non abbastanza tempo per farle, figuriamoci coltivare interessi personali o concedersi un po’ di riposo. E non è solo un’impressione. Nonostante un generale aumento della ricchezza globale, infatti, negli ultimi due decenni non si è avuto un aumento proporzionale di ore a disposizione per sé e una riduzione di quelle lavorative, nonostante il supporto della tecnologia.
Proliferano, invece, le forme di lavoro precarie che spesso lasciano ai lavoratori un orizzonte di sicurezza di pochi mesi, o al massimo un anno. I lavoratori autonomi, in particolare, sono oggi oltre il 23% degli occupati, accomunati da una condizione su cui gravano stress e ansia dovute a insicurezza, competizione, reperibilità costante e scadenze pressanti. Apparentemente c’è più flessibilità, in concreto un altro tipo di schiavitù, dato che, per raggiungere uno stipendio annuale – che nell’ultimo decennio ha subito un calo drastico – il 36% di chi ha la partita Iva non rispetta le 11 ore di riposo consecutive previste per legge. E questa situazione colpisce particolarmente i giovani.
Nell’arco della giornata ci si ritrova spesso a dover portare a termine lavori diversi e nel fine settimana si finisce con l’accumulare le attività necessarie e non più prorogabili, dalla spesa alle pulizie, sempre che non ci sia lavoro arretrato da recuperare. La generazione dei millennial in particolare vive nella costante rincorsa di qualcosa. Un conto però è la time pressure, un altro la time poverty. Quest’ultima è la condizione “non volontaria” dettata dalla mancanza di tempo libero dopo il lavoro, e dall’impossibilità di ridurre l’orario di lavoro senza aumentare il proprio livello di povertà. In parole semplici: se qualcuno svolge più lavori a basso salario, deve occuparsi di uno o più figli e non può permettersi aiuti, ha meno tempo da dedicare al proprio benessere, e la sua salute ne soffre.
Una situazione simile riguarda strati sempre più ampi della popolazione, perché la pandemia ha reso ancor più difficile “staccare”, portando all’estremo l’iperconnessione già in atto da più di un decennio, nei quali l’ingresso massiccio del web in moltissime professioni ha portato grandi vantaggi ma anche una crescente difficoltà a tracciare una linea netta tra lavoro e tempo libero. Whatsapp prima – che ha reso più facile essere contattati oltre l’orario lavorativo – e il lavoro da remoto poi hanno fatto il resto, erodendo alle nostre giornate ancora più tempo. Pur risparmiando sui tempi di spostamento casa-ufficio, infatti, si finisce spesso per lavorare di più, in un contesto non favorevole, stressante e alienante. Tutti questi fattori nell’ultimo anno non sono stati considerati nel pianificare la strategia per affrontare la pandemia, con il risultato che la nuova faccia della povertà in Italia si è manifestata come donna, madre, giovane e precaria.
Le principali vittime di questo meccanismo, che risucchia tempo e ricatta con il salario, sono le fasce più svantaggiate della popolazione: le famiglie monoreddito e/o monoparentali e le donne, che ancora nel 2021 si sobbarcano la gran parte del lavoro domestico e di cura, con 26 ore a settimana spese in media, contro le 9 degli uomini. Anche in Paesi dalle economie molto diverse tra loro, sono sempre le donne a continuare a fornire la maggior parte del lavoro non retribuito. Le ripercussioni per chi soffre la time poverty gravano sulle opportunità economiche e di realizzazione personale: senza tempo né denaro da investire in formazione difficilmente è possibile migliorare la propria condizione. Tutto questo, così, dà vita a un circolo vizioso, perché la mancanza di tempo impedisce alle donne di completare gli studi e, quindi, di ottenere magari un lavoro migliore, o semplicemente diverso.
Un’altra pesante conseguenza sono le ricadute socio-sanitarie. La mancanza di tempo, infatti, lascia poco tempo da dedicare alla cura di sé, visite di routine comprese. Non a caso quasi un quarto delle donne americane ha ritardato almeno una volta o non ha nemmeno richiesto assistenza sanitaria a causa del tempo insufficiente. Anche la cura della propria alimentazione è correlata al tempo a disposizione, perché, se scarso, è più difficile organizzarsi con le spese e cucinare pasti completi ed equilibrati, perché sì, un po’ d’organizzazione aiuta, ma quando devi far quadrare due lavori, hai uno o più figli di cui occuparti e una casa da mandare avanti diventa più difficile fissare in agenda anche l’orario per mettere a bagno i fagioli: qualcosa resta sempre fuori e allora il piatto iperprocessato da scongelare in microonde diventa un’opzione allettante perché più comoda e veloce, anche se non è certo la più salutare. Sul lungo periodo, però, le conseguenze si fanno sentire, con un aumento del rischio di morte del 26% per diverse cause: dal diabete all’ictus alle patologie cardiovascolari.
Tutti questi tentativi di far quadrare i conti e le ore del giorno per di più sono un’enorme fonte di stress, fattore che, come dimostrato, è in grado di uccidere le cellule cerebrali, oltre a favorire depressione e un’altra lunga serie di patologie. Meno tempo a disposizione vuol dire poi meno tempo da dedicare regolarmente all’attività fisica e meno probabilità anche solo di camminare o usare la bicicletta, che potrebbe essere incoraggiata molto di più come mezzo per andare al lavoro: come rilevavano già nel 2010 i ricercatori, il rapporto tra tempo, denaro e regolare esercizio – soprattutto nelle quantità e intensità raccomandate dall’Oms – è un problema di salute pubblica. L’attività fisica, infatti, è indispensabile per mantenere in salute il cuore e il sistema muscolo-scheletrico, diminuire il rischio di cancro e mantenere un peso corporeo salutare; ed è fondamentale anche per ridurre lo stress e mantenere un umore positivo: è infatti ormai riconosciuto all’unanimità il rapporto tra esercizio fisico e benessere mentale. Tra l’altro, anche chi riesce a tenere da parte i soldi necessari a iscriversi in palestra o a seguire un corso deve fare i conti con un’organizzazione non sempre flessibile come la sua giornata richiederebbe: spesso la maggior parte delle lezioni di fitness, dei workshop dedicati al benessere e gli altri eventi di persona sono programmati secondo una routine standard. Per effetto della pandemia, però, almeno in questo frangente per alcuni ci possono essere stati piccoli cambiamenti positivi, con la maggiore flessibilità data dalle lezioni registrate. Da ultimo, ma non in ordine di importanza, minore tempo a disposizione vuol dire anche meno ore di sonno – una delle necessità di base dell’individuo – con ricadute importanti sul benessere psicofisico, la salute e la sicurezza di tutti.
In definitiva, quello della time poverty è un problema sociale del nostro tempo sottovalutato dalla politica, che dovrebbe dedicare maggiore attenzione e risorse alla sua comprensione e alla sua riduzione per promuovere benessere fisico, psicologico ed economico. La time poverty mette a rischio la salute, limita drasticamente le opportunità economiche e la leadership femminile nel lavoro e nella società, oltre a essere un sintomo e uno strumento dell’oppressione nei confronti delle donne. Per tutti questi motivi dovrebbe essere un tema di grande rilevanza sociale, ma anche un problema di diritti umani. E invece non solo la time poverty non viene considerata, ma come se non bastasse siamo tutti vittime e complici della propagazione di time pressure: sui social siamo bombardati da un obbligo alla produttività e alla performance che ci fa sentire costantemente in difetto, incapaci di restare in forma, di apparire sempre sorridenti. E siccome rispettare tutti questi doveri più o meno scelti, più o meno imposti, è impossibile nelle 24 ore che ogni giorno ci concede, e in cui ricavare almeno qualche ora di sonno, sentirsi imperfetti e sbagliati è inevitabile.
Il tempo, così come il denaro, è una risorsa su cui è diritto dei cittadini avere il controllo, per farne ciò che preferiscono, senza ridursi a meccanismi funzionali solo a produrre e tenere in vita un sistema iniquo di cui sono le vittime. Invece il tempo è diventato il preziosissimo lusso della nostra epoca. E sì che se fosse alla portata di tutti la società stessa ne guadagnerebbe: secondo un’analisi di 76 studi condotti in Paesi a basso e medio reddito avere il controllo del proprio tempo migliora la salute e lo sviluppo dei singoli, delle loro famiglie e delle loro comunità. Iniziative politiche di soluzione del problema – da una riduzione degli orari di lavoro a un miglioramento dello stato sociale, che tenga conto degli orari lavorativi – sarebbero un vantaggio per tutti, ma nell’attesa che la politica agisca e le abitudini sociali cambino nel loro insieme, dovremmo sforzarci di imparare a mettere dei paletti, evitando di farci sfruttare direttamente o indirettamente e dando più spazio alle cose che ci fanno stare bene, per quanto piccole. Perché la time poverty ci sta davvero uccidendo e se chi dovrebbe averne la responsabilità se ne disinteressa tutto quello che possiamo fare è innescare un cambiamento a partire da noi stessi.
Silvia Granziero su The Vision