“Il 14 luglio scorso è stato pubblicato il pacchetto Fit for 55, che porta il livello di riduzione delle emissioni climalteranti al 2030 dal 40% al 55% rispetto al 1990, per arrivare alla neutralità carbonica al 2050. Un progetto ambizioso, come sottolineato da molti commentatori, ma indispensabile se guardato con gli occhi di chi studia il clima. E che comporta il raddoppio della quota di energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili in Europa tra il 2020 e il 2030″. Ad affermarlo in una lettera aperta sul tema spesso discusso nell’ambiente politico e ambientalista del fotovoltaico a terra l’ex vicesindaco di Padova e attuale portavoce delle opposizioni in consiglio regionale Arturo Lorenzoni, docente di Economia dell’Energia ed Electricity Market Economics alla Scuola di Ingegneria Industriale dell’Università di Padova. “Per l’Italia, date le fonti disponibili e l’andamento dei consumi, ciò significa per il solare fotovoltaico decuplicare da subito gli investimenti per l’intero decennio, dai 625 MW del 2020 ai circa 6000 MW l’anno. Uno sforzo titanico, a cui è affidata la riuscita della transizione energetica auspicata da tutti.Ma attuata da pochi”.
“Per questa ragione – spiega ancora Lorenzoni – dovremmo favorire ogni possibilità di produzione di energia in modo neutrale dal punto di vista climatico, per accelerare la sostituzione dei processi di combustione che stanno minando l’equilibrio climatico in modo esponenzialmente crescente. Sempre nel rispetto delle regole. Per questo procedere con i divieti risulta dannoso, oltre che costoso. Sono consapevole che la mia posizione è oggi poco comune nella politica italiana. Ma da studioso del mondo dell’energia e da amministratore ho la netta sensazione che il livello di percezione dell’urgenza di queste misure sia nettamente differente nel mondo scientifico e in quello politico, con una ritrosia a trasformare le sollecitazioni della scienza in azioni concrete. Simile a quella che sperimentiamo nella gestione della pandemia peraltro, anche se su scale temporali differenti. Ma non meno rilevanti. La situazione è simile a quella di un farmaco per la cura di una malattia letale che sia efficace come altri, ma che abbia degli effetti collaterali curabili. Avrebbe senso escluderlo dalle cure affidandosi solo ad altri farmaci, magari di difficile reperibilità? Certamente no, meglio utilizzarlo e limitare gli effetti collaterali. Come spesso si fa in medicina. Così nella transizione energetica: certamente è preferibile utilizzare le superfici già edificate delle coperture degli edifici, quelle degradate delle discariche, dei parcheggi, delle aree antropizzate, ma se ci fosse da mettere a terra dei moduli, meglio fissare delle regole per la mitigazione della loro visibilità piuttosto che vietarlo a priori. La normativa nazionale oggi è equilibrata: preserva giustamente le zone di pregio paesaggistico, ma non impone divieti insensati sul piano della sfida gigantesca che abbiamo di fronte. Un modo responsabile di guidare questi investimenti, auspicabili per l’economia e indispensabili per la conservazione dell’ambiente, è fissare regole chiare: un limite superiore alla superficie occupata dai pannelli rispetto alla superficie totale della proprietà in disponibilità;La presenza di perimetrazioni vegetali coerenti con le specie arboree presenti nell’area; l’utilizzo di fissaggi a vite senza il getto di platee per i filari di moduli, limitando l’impermeabilizzazione del terreno alle sottostazioni elettriche, di piccole dimensioni; Una priorità alle soluzioni che facciano coesistere l’attività agricola con la produzione fotovoltaica, come nel caso dell’Agrivoltaico. Queste possono essere garanzie sufficienti per scongiurare utilizzi speculativi dei terreni. Teniamo conto che anche qualora una grande parte dei 50 mila MW da installare nel decennio fossero posizionati a terra, cosa irragionevole e impossibile, sarebbero necessari circa 50 mila ettari, su una superficie agricola italiana di 12 milioni di ettari (lo 0,4%), ma se consideriamo che vi sono anche 4 milioni di ettari circa di superficie agricola non utilizzata, basterebbe l’1,25% di questa. Oggi inutilizzata. Saremmo, anche nel caso assurdo di investire solo nei terreni agricoli (che restano l’ultima opzione!), ben lontani da un impatto diffuso che possa compromettere il paesaggio. Anche perché va sempre confrontato il caso del fotovoltaico, visibile ma privo di impatti sulla salute, con quello delle centrali alimentate da combustibili fossili, con una potenza concentrata, ma effetti negativi sulla salute e sull’ambiente. E non si parli di consumo di suolo quando si parla di impianti FV, perché non vi è impermeabilizzazione del terreno, né un utilizzo permanente. La riconversione di un terreno può essere fatta in poche settimane, a differenza di una centrale termoelettrica costosa e difficile da smantellare. Il FV fatto bene non è nemico del suolo”.
“Consapevoli che la priorità è data agli impianti integrati negli ambienti già antropizzati, sul cui utilizzo l’amministrazione pubblica deve spingere iniziative urgenti, diamoci presto delle regole perché gli impianti che i privati vogliano mettere a terra in aree non protette (senza alcun incentivo si badi bene!) siano fatti bene, con mitigazione degli impatti visivi, ma non introduciamo divieti che feriscono l’economia e minano la transizione energetica, magari ricorrendo a una demonizzazione ingiustificata quando si guardino i numeri reali.
Non rinunciamo a un farmaco salvavita per noi e per i nostri figli – conclude Lorenzoni – molto meglio curarci e gestire gli effetti collaterali”.