Julian Assange non è un giornalista in senso classico, anche se ha scritto molto e fatto tv. È principalmente un attivista e un pirata informatico, che si dichiara anarchico, cyberpunk, cultore della trasparenza assoluta e a ogni costo, cofondatore nel 2007 del sito Wikileaks, cioè del principale collettore mondiale di documenti, cablogrammi e corrispondenze top secret carpiti con ogni mezzo lecito e illecito dai database di governi, diplomazie, istituzioni pubbliche e private.
Per questo è ricercato in mezzo mondo: per fargli pagare tutti i segreti che ha spifferato. Da sette anni era barricato nell’ambasciata dell’Ecuador – di cui aveva ottenuto la cittadinanza – a Londra, dov’era approdato come rifugiato politico. Ma poi aveva dovuto sottrarsi a una mandato di cattura dalla Svezia per reati sessuali (accuse, poi ritirate, relative a rapporti consenzienti, ma non protetti, con due sue amanti) e l’Ecuador gli aveva concesso l’asilo politico. L’altroieri il governo di Quito gliel’ha revocato, dando il via libera a Scotland Yard, che l’ha arrestato: non più per le accuse svedesi, ormai cadute, ma per quelle inglesi (violazione della libertà vigilata) e soprattutto americane.
Gli Usa hanno chiesto di estradarlo per la presunta cospirazione con Chelsea Manning, la militare-transgender che nel 2010 trafugò migliaia di documenti riservati dai database del governo mentre era analista dell’intelligence durante la guerra in Iraq. Ed è stata condannata a 35 anni, mentre Assange ne rischia fino a 5 per averla aiutata.
In questi 12 anni Wikileaks ha sputtanato decine di governi occidentali e non, con le parole e i documenti dei loro stessi membri. Ha smascherato le imposture, le menzogne e le ipocrisie di centinaia di potenti, mettendo in scena le oscenità che questi ipocriti bugiardi dicevano e facevano dietro le quinte (ob scaenam). E ha fornito ai giornalisti i materiali da raccontare, analizzare e commentare: in questo senso, più che un giornalista, era una “fonte”, o un fornitore di “fonti”.
Che nessuno poteva smentire, perché erano tutti documenti ufficiali e autentici. Se sappiamo molto, se non tutto, sulle porcherie e le menzogne organizzate per giustificare le guerre in Afghanistan e in Iraq, ma anche sui segreti del Vaticano, sui doppi e tripli giochi delle diplomazie americane ed europee, sulle menzogne di B. e dei suoi compari, giù giù fino alle doppiezze dell’Amministrazione Obama e alle email borderline di Hillary Clinton, lo dobbiamo ad Assange e alla sua ciurma di pirati. Per questo Julian era ed è più temuto di qualunque giornalista: “Carta canta e villan dorme”.
Qui però erano in molti a non dormire ai piani alti dei palazzi del potere mondiale, al pensiero di quel che avrebbe potuto pubblicare Wikileaks. E di quanti altri portali come quello potevano sorgere per emulazione se lui non avesse subìto una punizione esemplare, ben più terribile della reclusione in una stanza di pochi metri quadri di un’ambasciata, che servisse di lezione a tutti. L’altroieri l’ora della vendetta è arrivata, grazie alla viltà di Lenín Moreno, il presidente dell’Ecuador che si è genuflesso a Washington e gli ha ritirato lo status diplomatico, ancora bruciato dalle rivelazioni di Wikileaks sulla corruzione sua e della sua cricca. Il fatto che Trump ora finga di non conoscere Assange (“Non so nulla di Wikileaks e dell’arresto, non mi interessa”), dopo averlo magnificato in campagna elettorale al tempo dell’Hillary-gate (“I love Wikileaks”, “Adoro leggere Wikileaks”), dimostra che è difficile etichettarlo come amico di quello o nemico di quell’altro: quelli come lui sono una minaccia per chiunque sia al potere.
E le proteste del governo russo per “la libertà e i diritti violati” fanno ridere, al pensiero di come li violenta da sempre il regime di Putin, anche se vale la logica “il peggior nemico del mio nemico è mio amico”. Ma fanno altrettanto scompisciare i tentativi di screditare Assange come collaborazionista putiniano o addirittura come “spia russa” (Andrea Romano, il genio del Pd) solo perché le sue rivelazioni hanno indebolito gli Usa e i loro alleati: a meno che non si voglia sostenere che chiunque critichi o smascheri un governo occidentale è al soldo di Mosca.
Ma l’allergia dei politici di ogni risma e colore per Wikileaks è comprensibile: solo chi non mente mai ed è sempre coerente, cioè chi non detiene il potere, può permettersi di non temerlo. Dunque nessuno scandalo se in tutta Europa, a parte outsider di sinistra come Mélenchon e Barbara Spinelli, e in Italia i 5Stelle, nessuna voce critica s’è levata contro lo scempio del diritto internazionale perpetrato dal governo May. Ciò che stupisce e disgusta è il silenzio di giornalisti, editori e giuristi, del tutto impermeabili a questo attacco contro la libertà di stampa e al grido d’allarme dell’avvocato americano di Assange, Barry Pollack: “I giornalisti di tutto il mondo dovrebbero essere molto preoccupati da queste accuse penali senza precedenti, perché minano il diritto della stampa a proteggere le proprie fonti confidenziali”. In effetti dovrebbe preoccuparsi chi ancora pensa che il giornalismo debba pubblicare tutto ciò che è vero, senza riguardi per nessuno.
Ma non è questo il caso del 90 per cento del giornalismo italiota, allergico alle notizie e infatti ormai tutto contro Assange, o indifferente. Compresi i giornali che fino all’altroieri, obtorto collo, ne riprendevano gli scoop. La minzion d’onore va a un povero acchiappafantasmi (perlopiù russi) e sparabufale (perlopiù americane e renziane) de La Stampa che, anziché difendere una persona arrestata per aver illuminato il mondo con migliaia di verità in più, stila la lista di proscrizione dei pochi reprobi che hanno osato incontrarla e ringraziarla.
Vergogniamoci per lui.
di Marco Travaglio da Il Fatto Quotidiano