Tre domande: perché Assange è dimenticato e Navalnyi no?; perché il “Patto per l’Italia”, per i privati?; perché i morti sul lavoro sono “normali”?

203
morti lavoro
morti lavoro

Alcune, tre, domande retoriche.

1

Perché la "grande informazione" (cioè quella più diffusa) dà un enorme spazio alle notizie relative all'oppositore russo Navalnyj mentre, sostanzialmente e di fatto, tace su quello che sta succedendo a Julian Assange?

Forse perché del primo (Navalnyj) si sostiene sia "democratico" e che sia stato avvelenato dalla "dittatura" di Putin (è sopravvissuto al novichok, uno dei più letali agenti nervini), mentre il secondo (Assange) è considerato un pericoloso sovversivo e viene processato da una "grande democrazia" per estradarlo in un'altra "grande democrazia" dove rischia fino a 175 anni di carcere per avere diffuso a tutto il mondo informazioni vere?

La cosa è alquanto tragica ed è, soprattutto, indicativa dello stato di salute comatoso della nostra "grande informazione" che si sta suicidando (e da tanto tempo) prona com'è ai diktat delle "grandi democrazie" sopra citate.

2

Si legga quanto segue. È qualcosa di emblematico di quella che è la mentalità abituale in tante imprese (fonte ilfattoquotidiano.it):

“Troppe assenze a causa del Covid”: licenziato dal supermercato a un passo dalla pensione … L'uomo lavora da 33 anni nel punto vendita Famila di Casalpusterlengo. “Quando ero ricoverato in ospedale, vedevo passare in corridoio almeno 5-6 bare al giorno", racconta. Dopo la guarigione, un nuovo ricovero per miocardite che per i medici è una conseguenza del Covid. Poi la doccia fredda. I sindacati: violate le direttive del Cura Italia. Contattata dal Fatto.it, l'azienda non fornisce chiarimenti”

Intanto Confindustria va all'attacco. Sto leggendo la relazione di Bonomi all'assemblea confindustriale del 2020 dal titolo "Il coraggio del futuro".
Mi sembra un testo abbastanza generico anche se si evidenzia la concretezza del sistema delle imprese e si fa riferimento spesso e volentieri alla lettera di Bonomi alle associazioni confindustriali di qualche giorno fa.

Ci sono alcune cose però che mi sembrano alquanto indicative. Per esempio:

"Occorre un welfare che collochi la natalità al centro delle priorità. Ed occorre un progetto per l'occupazione di giovani e donne al cuore delle riforme fiscali, previdenziali e formative …"

oppure

"Perché passare alla tassazione diretta mensile solo per i 5 milioni di autonomi? Facciamo lo stesso per tutti i lavoratori dipendenti, sollevando le imprese dall'onere ingrato di continuare a svolgere la funzione di sostituti d'imposta addetti alla raccolta del gettito erariale e di essere esposti alle connesse responsabilità."

E poi i soliti concetti, la stessa “visione” (che viene nominata spesso nella relazione citata) … e sempre più privatizzazioni di qualsiasi cosa, poche o nessuna responsabilità da parte imprenditoriale, richiesta di avere sempre più soldi dallo stato (ma senza permettere al pubblico di intervenire nella gestione e nel controllo delle imprese beneficiarie), possibilità di licenziare (così, si fa intendere, si potrà assumere per ripartire) … meno lacci e laccioli.

Insomma ci vuole un "Grande Patto per l'Italia" che, però, sia a favore dell'impresa privata che deve essere messa al centro di tutto. Naturalmente, non c'è niente riguardo la sicurezza sul lavoro … sembra che a “lorsignori” non interessi granché. Un dubbio più che legittimo. Per carità, i padroni fanno il loro mestiere. Tentano di guadagnare sempre di più. Vogliono il massimo possibile. In definitiva sono padroni proprio per questo.

Sarebbe importante, però, che ci fosse, da parte istituzionale e anche sindacale, una risposta che non fosse di solerte acquiescenza. Una risposta chiara e, se necessario, conflittuale che, ad oggi, è difficile percepire. Di fatto con il silenzio o i sussurri più o meno timidi che si sentono da parte di troppi, cresce il timore che Confindustria otterrà tutto quello che vuole. E questo non è solo sbagliato, è un pericolo.

3

Tanto per ricordare che la sicurezza sul lavoro non è, poi, garantita come dovrebbe essere (fonte Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro):

Il 30 settembre sono morti 4 lavoratori in edilizia, nei servizi elettrici e in agricoltura con due schiacciati dal trattore … Sono 43 i morti per infortunio sui luoghi di lavoro in settembre … dall’inizio dell’anno sono morti 811, lavoratori di questi 411 sui luoghi di lavoro (tutti i morti sul lavoro sono registrati da 13 anni in apposite tabelle excel con identità, luogo e data della tragedia, professione, età e nazionalità), a questi occorre aggiungere altri 405 lavoratori morti a causa del coronavirus.

E il primo di ottobre 3 lavoratori sono morti per infortunio nei luoghi di lavoro. La strage continua ma, vista anche la coltre di disinformazione che copre le notizie guardano questa strage, evidentemente per qualcuno, morire di lavoro, è qualcosa di accettabile. È normale che accada, il problema non esiste e nessuno può essere responsabile. Viviamo in un sistema nel quale la salute e la vita stessa di chi lavora è subordinata al profitto. È il migliore sistema possibile e noi ce ne dobbiamo fare una ragione? Credo proprio di no.

---

PS: queste tre note sono solo apparentemente slegate tra loro. In effetti, ricordando le parole di Roberto Roversi, cantate da Lucio Dalla si potrebbe dire “Un filo rosso lega tutte, tutte queste vicende. Attenzione: dentro ci siamo tutti, è il potere che offende”.)

Sei arrivato fin qui?

Se sei qui è chiaro che apprezzi il nostro giornalismo, che, però, richiede tempo e denaro. Se vuoi continuare a leggere questo articolo e per un anno tutti i contenuti PREMIUM e le Newsletter online puoi farlo al prezzo di un caffè, una birra o una pizza al mese.

Grazie, Giovanni Coviello

Sei già registrato? Clicca qui per accedere

Articolo precedenteTampone rapido antigenico per il covid sperimentato in Veneto. Zaia: “primi in Italia”
Articolo successivoPorto Burci e Università, domanda d’attualità di Asproso al Comune: “qual è la verità?”
Giorgio Langella
Giorgio Langella è nato il 12 dicembre 1954 a Vicenza. Figlio e nipote di partigiani, ha vissuto l'infanzia tra Cosenza, Catanzaro e Trieste. Nel 1968 il padre Antonio, funzionario di banca, fu trasferito a Lima e lì trascorse l'adolescenza con la famiglia. Nell'ottobre del 1968 un colpo di stato instaurò un governo militare, rivoluzionario e progressista presieduto dal generale Juan Velasco Alvarado. La nazionalizzazione dei pozzi petroliferi (che erano sfruttati da aziende nordamericane), la legge di riforma agraria, la legge di riforma dell'industria, così come il devastante terremoto del maggio 1970, furono tappe fondamentali nella sua formazione umana, ideale e politica. Tornato in Italia, a Padova negli anni della contestazione si iscrisse alla sezione Portello del PCI seguendo una logica evoluzione delle proprie convinzioni ideali. È stato eletto nel consiglio provinciale di Vicenza nel 2002 con la lista del PdCI. È laureato in ingegneria elettronica e lavora nel settore informatico. Sposato e padre di due figlie oggi vive a Creazzo (Vicenza). Ha scritto per Vicenza Papers, la collana di VicenzaPiù, "Marlane Marzotto. Un silenzio soffocante" e ha curato "Quirino Traforti. Il partigiano dei lavoratori". Ha mantenuto i suoi ideali e la passione politica ed è ancora "ostinatamente e coerentemente un militante del PCI" di cui è segretario regionale del Veneto oltre che una cultore della musica e del bello.