La tragica storia di Giulia Cecchettin sta suscitando una comprensibile commozione nell’opinione pubblica italiana, prima di lei in Italia, solo quest’anno, altre 103 donne sono state uccise da maschi che non hanno accettato la fine di una relazione. Chi uccide è il “bravo ragazzo”, che troppo spesso non serve neppure sia della porta accanto, tanto è più vicino.
Dal punto di vista epidemiologico e statistico, l’80% o anche di più dei femminicidi è fatto da maschi abbandonati che non sopportano e non metabolizzano l’idea della perdita e della separazione, perché hanno investito talmente tanta della loro energia psichica e dei loro vissuti su quel rapporto che l’idea di essere abbandonati non è metabolizzato, non è realizzabile.
Si può uccidere per gelosia? Risulta fuorviante presupporre la gelosia come motivazione di un femminicidio come quello di Giulia Cecchettin, una di troppe. Per ogni singolo caso vi sono una molteplicità di fattori che, concorrendo in modo complesso, possono sfociare in tragedia.
Sicuramente, alla base ci può essere una gelosia patologica che contiene in sé il germe dell’insicurezza, del sospetto infondato, della possessività assoluta dell’altro. La gelosia deriva dalla rabbia, che raggiunge un’intensità tale che il comportamento diventa fuori controllo, la rabbia può portare a ruminazione costante, a cui può seguire il piacere della vendetta, dove il fine consapevole è la punizione. La gelosia patologica rovina la vita sia di chi la vive in prima persona, sia di chi la subisce e si parla di patologia proprio perché necessita di un percorso psicoterapeutico per risolversi.
L’amore può far star molto male, quando si chiude una relazione d’amore si vive un tempo di lutto e di grande dolore, ma l’amore non può mai portare a fare male. Non è proprio possibile, sarebbe una contraddizione in termini, un ossimoro. Non ci deve essere proprio il rischio dell’equivoco se non vogliamo che ci siano altre vittime come Giulia.
Pensare di combattere la violenza contro le donne tramite un paio di parole e approfondimenti una volta l’anno, ogni qualvolta si verifica un femminicidio è come curare un virus con un cerotto. Non è possibile e nemmeno lontanamente sufficiente.
Il femminicidio ha origini antiche e tradizionali basate su un sistema di pratiche culturali sistemiche che si tramandano di generazione in generazione, viviamo immersi di stereotipi, dove la matematica è di sesso maschile, le donne sono portate geneticamente per le professioni di cura, ecc…
C’è un problema di educazione, basti pensare che siamo tra gli unici sei paesi europei a non aver reso obbligatoria l’educazione sessuale a scuola, e quando nelle scuole l’educazione all’affettività e alla sessualità viene fatta è riservata a poche ore, perché spesso mancano i soldi per pagare l’esperto esterno. Questa è la scuola dei nostri figli!
Quella che ha rimosso negli anni ’90 l’educazione civica (anche come educazione al rispetto), per poi pentirsene e reinserirla come materia di studio solo recentemente; così come non ha mai inserito l’educazione alle emozioni, ovvero alla capacità di saper leggere, decodificare, riconoscere e gestire le proprie e altrui emozioni, cruciale per la crescita, lo sviluppo e per instaurare relazioni sane, profonde e arricchenti. Discipline di studio trasversali, che interessano tutte le materie di insegnamento, dove ogni docente attraverso la disciplina che insegna, dovrebbe sollecitare riflessioni e discussioni, in tutti i gradi scolastici.
Come mamma, moglie e terapeuta mi chiedo: ha veramente senso l’educazione civica così come è strutturata oggi, relegata ad una materia scolastica? E ancora, i giovani di oggi sono completamente diversi da quelli di soli pochi anni fa, i docenti sono preparati ad affrontarli? E ancora, appartiene al loro ruolo comprenderne i disagi? E’ possibile contrastare il fenomeno del femminicidio e della violenza di genere, promuovere la cultura del rispetto e dell’affettività, senza il coinvolgendo delle famiglie e senza fornire agli insegnanti una formazione adeguata? Come mai nella scuola non c’è ancora la figura del pedagogista? La figura che si occupa dell’educazione, quindi dell’accompagnamento delle persone in un percorso di crescita e cambiamento. Il 5 luglio 2023 è stato approvato il Disegno di Legge 1319 che istituisce i profili professionali di educatore professionale socio-pedagogico e pedagogista nella scuola, ma la strada che porta all’attuazione sembra essere davvero ancora lunga!
Mentre la scuola non sa come affrontare queste tematiche, i genitori spesso navigano nel puro imbarazzo o nel disorientamento.
Non educare al piacere condiviso, all’ascolto, al consenso esplicito, al rispetto dei pensieri, desideri e stati d’animo propri e dell’altro, permette alla violenza di genere di costruire basi solide per ogni sua forma di espressione: botte, lividi, insulti, discriminazioni economiche e omicidi.
Cambiare lo sguardo e l’impianto educativo è un’urgenza di tutti, di tutte le agenzie educative, senza distinzione alcuna. Prima si comincia la prevenzione meglio è!
Lo insegnano i drammi delle tante, troppe Giulia Cecchettin.
“Educazione significa sempre cambiamento.
Se non ci fosse niente da cambiare, non ci sarebbe niente da educare.”