Nel lontano 1764 Cesare Beccaria sottolineava che «Il carcere è la semplice custodia d’un cittadino finché sia giudicato reo, e questa custodia essendo essenzialmente penosa, deve durare il minor tempo possibile e dev’essere meno dura che si possa»[1]. Tutto questo grossomodo 250 anni prima della scelta – da parte della giustizia egiziana – di detenere in carcere un imputato per oltre un anno in custodia cautelare.
Secondo la nostra Carta costituzionale, che ha fatto proprie le riflessioni del Beccaria, l’imputato non è infatti considerato colpevole fino alla condanna definitiva e, pertanto, la pena può essere applicata solo successivamente alla sentenza irrevocabile di condanna (Art. 27, comma 2 Cost. It), oltre al fatto che il pericolo di un’applicazione arbitraria delle misure preventive è stata recepita dagli stessi Padri costituenti, che hanno dato al principio di limitazione della carcerazione preventiva un espresso riconoscimento anche a livello costituzionale (Art. 13, comma 5 Cost. It).
Il pericolo percepito è quello che la custodia cautelare venga, in casi come quello di Patrick Zaki, “trasfigurata” in una sorta di pena anticipata. È forte la tentazione, da parte delle autorità, di impiegare il processo penale non solo come strumento volto alla verifica della responsabilità per un fatto che si assume penalmente rilevante, ma come mezzo di difesa della società e di repressione della devianza. In questo contesto, la detenzione assurge a condizione ordinaria in cui si trova l’imputato in attesa di giudizio.
Giuliano Vassalli, che è stato ministro della giustizia, presidente della Corte costituzionale poi e firmatario del vigente Codice di Procedura Penale, ha evidenziato, in tutta la sua gravità, il rischio di uno slittamento della custodia preventiva fino a confondersi con l’espiazione della pena. A suscitare le maggiori preoccupazioni è l’uso da parte del legislatore del parametro dell’allarme sociale, maldestramente occultato dietro il paravento delle «esigenze di tutela della collettività»[2].
Da una rapida analisi, il dubbio che il tribunale egiziano abbia fatto ricorso strumentalmente alla carcerazione preventiva, trascurando i principi sopra richiamati, è quantomai fondato. Senza contare che una diversa sensibilità giuridica – tra l’ordinamento italiano e quello egiziano – può essere rilevata già analizzando le modalità di svolgimento della fase istruttoria del processo Zaki.
Secondo quanto riferito dal suo avvocato, Patrick Zaki sarebbe stato bendato e torturato per diciassette ore consecutive con colpi allo stomaco, alla schiena, e con scariche elettriche inflitte dalle forze di sicurezza egiziane, oltre a essere stato interrogato a riguardo della sua permanenza in Italia, del suo presunto legame con la famiglia di Giulio Regeni, e del suo impegno politico, venendo inoltre minacciato di stupro.
Tenuto conto che il principio di giurisdizionalità postula la presunzione di innocenza dell’imputato, quando l’innocenza dei cittadini non è sufficientemente garantita e la giustizia finisce per incutere paura, è il segno inconfondibile della perdita di legittimità politica della giurisdizione stessa e insieme della sua involuzione irrazionale e autoritaria[3].
Le circostanze riportate dalla difesa di Zaki ricordano anche quel processo di transizione dal processo inquisitorio al processo accusatorio che, per l’ordinamento italiano, può ritenersi quasi completata. Con riferimento all’ordinamento egiziano, invece, residuano forti perplessità.
In particolare, nella disciplina del Codice di procedura penale italiano, entrato in vigore il 24 ottobre 1989, la figura del giudice istruttore è stata soppressa e il processo ha assunto caratteristiche prevalentemente accusatorie. La superiorità del sistema accusatorio è stata anzitutto rilevata per la centralità del dibattimento come luogo privilegiato per l’assunzione della prova e nella generale ricerca di una posizione paritaria tra le parti del processo.
La completa affermazione del principio accusatorio implica, in buona sostanza, il superamento di tutto quanto, nello svolgimento di un processo penale, potrebbe richiamare alla mente le discutibili tecniche adottate dal Tribunale l’Inquisizione nella tristemente celebre “caccia alle streghe”.
È, dunque, l’affermazione di tutti questi principi (giusto processo, presunzione d’innocenza, limitazione della custodia cautelare) che giustifica, già di per sé, la pressione esercitata sul piano diplomatico per ottenere la scarcerazione del giovane studente egiziano, ivi compreso il conferimento della cittadinanza italiana, che larga parte della nostra opinione pubblica richiede a gran voce.
Dalla valutazione comparata con i principi che informano l’ordinamento italiano, emerge poi come l’esortazione nei confronti dell’autorità egiziana non possa – e non debba – riguardare esclusivamente il rispetto dei diritti fondamentali di libertà d’espressione, di associazione e di manifestazione pacifica (che, nel caso di specie, sembrerebbero essere stati violati), ma debba innanzitutto mirare alla repressione delle gravi violazioni dei diritti dell’imputato, nonché all’affermazione di un giusto processo.
[1] C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, Giuffrè, Milano 1973, p. 69.
[2] G. VASSALLI, Libertà personale dell’imputato e tutela della collettività, in Scritti in onore di Costantino Mortati, III, Giuffrè, Milano, 1977, p. 1097-1168, poi in Giust. pen., 1978 I, c. 1-46.
[3] L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 559-560.
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a cura di Michele Lucivero
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