Ernesto Galli non c’è più e non riesco a ricordarlo senza emozionarmi. Perché i ricordi che mi collegano a lui sono tanti, partono dal Lanerossi di G.B. Fabbri, proseguono nei tremendi anni Ottanta del primo declino biancorosso, culminano nel Vicenza di Francesco Guidolin e arrivano fino a oggi attraverso le interviste che gli ho fatto per i miei documentari sul Real Vicenza e sulla squadra del ciclo delle Coppe.
Non ci si vedeva spesso, non veniva mai al Menti, non partecipava agli eventi del calcio e, per incontrarlo, bisognava telefonargli prima. Ma non era necessaria una frequenza di rapporti per sentirlo presente e per ravvivare la simpatia e la stima che provavo. Galli era uno che, anche se lo rivedevi dopo tanto tempo, non c’erano rimpatriate e si parlava con la stessa semplicità e la solita immediatezza di sempre. Lo stile era quello di tutti i ragazzi del Real: farti sentire uno di loro, anche se eri stato solo un testimone delle loro gesta, e nessuna prosopopea, anzi… Ernesto non era un esternatore, si esprimeva con frasi brevi e per concetti semplici, le interviste non erano il suo forte e bisognava fargli tante domande per avere materiale sufficiente da riportare. Ricordava tutto degli anni felici del Real Vicenza e della altrettanto esaltante esperienza professionale come vice di Francesco Guidolin. Ne parlava senza la minima esaltazione, pacatamente, con la sua voce roca che non si alzava mai di tono. Come, del resto, erano altrettanto presenti per lui gli anni difficili, come quello della salvezza conquistata contro il Trento grazie a un indimenticabile rigore messo a segno da Fausto Pizzi.
Galli è stato uno dei più forti portieri nella storia del Lanerossi, vicecampione d’Italia nel 1978. Da allenatore, forse ha dato il meglio come secondo di colleghi più disposti e adatti al proscenio. Ho sentito parlare solo bene di lui, e molto, da tanti giocatori di cui è stato compagno di squadra o che ha allenato. Perfino Sulfaro e Piagnerelli, i suoi vice nel Real Vicenza, a cui aveva concesso in tutto una presenza al primo e un subentro al secondo, cannibalizzando la porta biancorossa per tre campionati, non avevano alcun rancore per non aver avuto più spazio.
La cronaca, ora. Quindi passiamo al pareggio del Vicenza a Empoli. Un risultato che avrà fatto felice qualche scommettitore perché la quota per la X era piuttosto alta. Difficile pronosticare, infatti, che una squadra decimata dal virus, senza allenamenti a ranghi completi da settimane, che non giocava in campionato da venti giorni, uscisse imbattuta nella trasferta in casa della prima in classifica.
Onore e merito quindi ai biancorossi, che hanno firmato una pagina esemplare, diciamo pure eroica – senza alcuna retorica – di questo campionato e forse della loro storia. E va riconosciuto a Mimmo Di Carlo di essere stato davvero grande professionista in questa occasione: prima come motivatore di un gruppo che poteva andare in campo sentendosi legittimamente predestinato al massacro e, poi, come tecnico capace di allestire una squadra competitiva pur con una rosa dimezzata, di inventare con successo per più d’uno un ruolo che non era il suo, di individuare la tattica giusta per smorzare le velleità della capolista e, contemporaneamente, per approfittare dei suoi punti deboli.
Si è vista quindi in campo una squadra che non è stata mai in affanno, che ha saputo gestire la partita, che non sembrava affatto imbottita di riserve e a corto di allenamenti. Anche l’Empoli, come non aveva fatto la Cremonese, non ha aggredito il Vicenza o, meglio, non c’è riuscito perché si è trovato a sua volta esposto alle ripartenze dei biancorossi. Questa delle ripartenze sta diventando, per necessità e per scelta, la cifra tecnica che caratterizza il gioco della squadra. Rovesciare il fronte è la cosa che sa fare meglio il Vicenza e, ora che ha trovato i finalizzatori della azione offensiva, rende.
Chiuso meritatamente in vantaggio il primo tempo, nel secondo si temeva la possibilità di un giustificabile calo dei biancorossi e di una loro arrendevolezza di fronte al probabile assedio a cui li avrebbe sottoposti la squadra allenata da Dionisi. Così invece non è stato, pur giocandosi tutta la ripresa prevalentemente nella metà campo veneta. Questa si è rivelata la parte più difficile della gara ma il Vicenza ne è venuto fuori nel migliore dei modi, addirittura riuscendo a pareggiare a tempo scaduto. Qui si è visto il carattere dei giocatori, che non hanno mai mollato, e la bravura dell’allenatore, che ha saputo fare al momento giusto i cambi, ovvi vista la panchina corta ma tempestivi.
Di Carlo non vuole parlare mai dei singoli, ma credo sia giusto evidenziare le prove di due giocatori. Il primo è Daniel Cappelletti, il difensore centrale nemmeno convocato perché negativizzatosi troppo tardi e che invece ha voluto essere in campo a tutti i costi. Una ottima partita la sua ma soprattutto chapeau per un grande gesto. Quasi da libro Cuore. Cappelletti è un ragazzo che ha doti umane (le ho percepite conoscendolo di persona in occasione di una trasmissione televisiva di cui eravamo insieme ospiti) che lo distinguono dal profilo del calciatore-tipo, tutto “mister”, risposte banali e tatuaggi. È un lombardo di Cantù che non si è formato nel vivaio di una grande squadra ma si è costruito una carriera con le sue mani. Ha trovato fortuna e apprezzamento in Veneto, prima a Cittadella poi a Padova e ora a Vicenza. Potrebbe diventare il leader di questa squadra, il futuro capitano.
L’altro giocatore è Pietro Perina, il portiere. A Empoli ha fatto una cosa eccezionale: è riuscito a deviare sul palo un rigore che avrebbe potuto chiudere la partita. Ma, attenzione, non è stato per caso o per demerito dell’avversario. È riuscito a capire l’angolo verso cui Mancuso ha calciato il penalty e si è allungato in tuffo intercettando con le unghie il pallone quel tanto che è bastato a spostarlo verso il palo. Il tiro era fortissimo e molto angolato. Insomma: un pezzo di bravura. Ma Per Perina non è la prima volta.
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