Con i quattro morti di ieri salgono a 53 i lavoratori che hanno perso la vita per infortunio nei luoghi di lavoro. Diventano 116 considerando anche i morti in itinere. Pochi, o nessuno, ci fanno caso.
La nostra attenzione viene dirottata verso altri lidi.
Il festival di Sanremo, per esempio, e le polemiche su questa o quella esibizione. Sulle stonature di qualcuno. Sulla recita del “grande attore” che legge il “Cantico dei Cantici” (i meravigliosi versi sull’amore profano e la passione tra due esseri, che ha ispirato anche musiche eccezionali come quelle dei tedeschi Popol Vuh in “Das Hohelied Salomos” di 45 anni fa, a mio avviso sono molto più toccanti rispetto all’interpretazione di Benigni), sui litigi e sulle riappacificazioni di Tizio e Caio.
Poi ci sono le dichiarazioni di Renzi e seguaci vari sulla prescrizione che mettono in discussione il governo.
Infine le notizie sulla situazione del coronavirus che riempiono i giornali e ingigantiscono le nostre paure.
E su questa epidemia che preoccupa tutto il mondo sarebbe giusto fare doverosi approfondimenti e alcune considerazioni. Io mi limito a questa domanda. Possibile che prestiamo grande attenzione, e giustamente, a quello che succede in Cina, alla diffusione di una malattia che conosciamo poco e della quale non si ha ancora un antidoto ma non ci preoccupiamo di altri “virus” che uccidono?
Mi riferisco alle prime frasi di questa riflessione.
In 38 giorni, dei quali molti festivi, sono morte 53 persone a causa di condizioni di lavoro sempre peggiori. E l’anno scorso oltre 700 sono le persone (si signori, persone, anche se vengono declassate quasi sempre alla categoria di numeri di una statistica infame) che sono state uccise dalle condizioni nelle quali lavoravano. Rendiamocene conto, non è il lavoro che uccide. Sono l’insicurezza e la precarietà che siamo costretti a subire, coscienti o meno, per poter lavorare che distruggono le vite di chi lavora.
Da più parti ci dicono che “bisogna correre” per essere competitivi. Sappiamo che è necessario lavorare sempre di più per poter avere retribuzioni appena sufficienti alla sopravvivenza. Accettiamo di avere sempre meno diritti e ci stiamo convincendo che è giusto così perché “siamo tutti sulla stessa barca”.
Crediamo di sapere tutto ma non siamo coscienti che questo è sfruttamento (brutale e vile) che serve solo ad aumentare il profitto di chi comanda.
Ecco, assieme al coronavirus dovremmo affrontare un’altra malattia: la precarietà del lavoro. Una malattia che conosciamo, che abbiamo lasciato prosperare e che potremmo contrastare e debellare.
Basterebbe volerlo.
Proviamo a farlo ripristinando i diritti che ci sono stati rubati in nome del guadagno di pochi (leggi capitalismo). E proviamo a esigere retribuzioni migliori, dedichiamo le risorse necessarie alla ricerca e all’innovazione tecnologica e scientifica in maniera che siano finalizzate a farci lavorare meno, meglio e in sicurezza. Proviamo a rivendicare il diritto ad avere più tempo libero per conoscere, divertirci, riposarci, pensare, amare. In una parola vivere. Lottiamo per questo. Non sarà l’antidoto definitivo o la soluzione di ogni cosa ma sicuramente sarà una maniera più umana di lavorare, sicuri di avere un presente e un futuro degni di essere vissuti.
N.B. Per i dati sui morti sul lavoro la fonte è il sito dell’Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro di Carlo Soricelli che dobbiamo ringraziare per la puntuale e preziosa opera di informazione.