Una giornata particolare sui media per i morti sul lavoro: ma solo perché oggi è la “giornata nazionale per le vittime del lavoro”?

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Giornata nazionale per le vittime del lavoro
Giornata nazionale per le vittime del lavoro

Se si leggono i giornali di oggi si possono leggere articoli, anche in prima pagina, che parlano delle vittime del lavoro. Finalmente, si potrà pensare, si presta attenzione su quello che è uno dei principali problemi (se non il principale) della nostra società: la (insufficiente) sicurezza sul lavoro.

I titoli riportano dati drammatici. Centinaia e centinaia di morti da inizio anno. I commenti sono concordi, le vittime del lavoro sono troppe, bisogna fare qualcosa. Lo si dice a chiare lettere, e lo dicono tutti. Ma cos’è successo? C’è un risveglio delle coscienze? Forse ma sorge il dubbio che quello che ha “scatenato” tutti questi articoli e le notizie è dovuto alla data di oggi. Il 13 ottobre, infatti, è la “giornata nazionale per le vittime del lavoro. Non un giorno qualsiasi, quindi, ma una “ricorrenza” dedicata a ricordare chi è morto perché lavorava. E, in questa giornata, bisogna essere attenti al problema, bisogna pur dire qualcosa.

Bisogna, soprattutto per chi governa o comanda, non tanto scuotere le coscienze ma lavarle. In particolare le proprie. Domani sarà un altro giorno, uguale a tanti altri. Si continuerà a morire per infortunio nei luoghi di lavoro o per malattie professionali. Il lavoro non sarà migliore ma precario e insicuro, come prima di oggi, come sempre. Tutto rientrerà nella norma. Una normale realtà tristemente brutale: di lavoro e nel lavoro si muore e, tranne qualche cenno di solidarietà nei confronti delle vittime, si fa poco o nulla. Vedrete che poco o nulla continuerà a farsi e che si ricadrà nell’indifferenza.

Pensare questo non è cinismo è solo realismo. Un malinconico e triste realismo. Ogni anno, del resto, il 13 ottobre si mette inscena quello che è soltanto una specie di rito. E, allora, anche in questo giorno dedicato alle vittime del lavoro, è giusto ricordare, appoggiare e ringraziare chi ritiene che non ci sia bisogno di una giornata specifica ma che sia necessario informare e lottare ogni giorno per evitare che questo massacro avvenga.

Chi non riesce ad arrendersi al fatto che nel nostro paese così civile e democratico, ogni benedetto (maledetto) giorno muoiano in media due persone nei luoghi di lavoro e ancora di più in itinere. Sono numeri che definiscono come il lavoro sia diventato una guerra vera e propria. Numeri e non solo perché dietro essi ci sono persone, nomi e cognomi, famiglie mutilate, speranze e futuri distrutti, dolore e rabbia … e una sostanziale mancanza di giustizia.

Domandiamoci cosa si fa, anche dal punto di vista giudiziario, per limitare (almeno) i danni e i drammi prodotti da questa guerra. Proviamo a riflettere su quanti siano i responsabili condannati perché a causa della loro inadempienza o per la bramosia di profitto hanno causato la morte di altre persone. È di questi giorni la sentenza della Cassazione che ha assolto definitivamente i vertici della Olivetti imputati per la morte da mesotelioma (amianto) di oltre dieci lavoratori.

Ed è di questi anni il silenzio che ha avvolto e continua a coprire quanto è successo alla Marlane Marzotto di Praia a Mare. Oltre cento lavoratrici e lavoratori sono morti di tumore molto probabilmente (o si può dire sicuramente?) perché lavoravano in uno stabilimento pericoloso che produceva rifiuti tossici e che ha lasciato residui che dimostrano un inquinamento spaventoso comprovato da varie perizie. Ricordiamo che il primo processo è finito con l’assoluzione di tutti gli imputati dichiarando che il fatto non sussiste, che non esistono responsabili, che nessuno è colpevole, che erano passati troppi anni da quando tutto era accaduto.

Questi sono solo due esempi di qualcosa che ormai è diventato normale nel panorama del lavoro. Morire di lavoro e sul lavoro non è un fatto drammatico e grave, non è qualcosa di straordinario, è solo un prezzo da pagare perché si possa essere competitivi e generare profitti per chi investe denaro. Chi paga è chi vive (e muore) del proprio lavoro. Gli altri, i capitalisti, i padroni, non vengono toccati. Al massimo si dichiarano dispiaciuti (e spesso lo fanno solo verso se stessi perché, magari, ritengono inammissibile essere indagati o imputati).

Di fronte a tutto quello che succede e all’ipocrisia che si può percepire in questo 13 ottobre è necessario smettere di essere indifferenti e fare qualcosa. Innanzitutto bisogna cambiare radicalmente il punto di vista. Convincersi che il lavoro è un diritto e non una concessione di qualche padrone e che il lavoro deve essere garantito, sicuro e giustamente retribuito. L’obiettivo deve essere il raggiungimento di un benessere collettivo. Invece oggi, in questo capitalismo trionfante che appare come ineludibile ed eterno, esiste solo il dovere di lavorare perché pochi si arriscano.

È necessario cambiare prospettiva. Almeno tentare di farlo. Si investa nella prevenzione, nella ricerca e nell’innovazione, nella tecnologia che deve servire ad aumentare in maniera sostanziale la sicurezza sul lavoro e diminuire la fatica e l’alienazione di chi lavora per vivere. Lo si faccia presto con un piano di sviluppo serio e sostenibile per chi lavora. Lo si faccia impedendo che lo sviluppo della tecnologia, della robotica, della digitalizzazione siano dedicate all’aumento del profitto con conseguenze disastrose per la vita stessa dei lavoratori. Si abbia coscienza che questo è compito dello Stato che si deve riappropriare del suo ruolo fondamentale previsto dalla nostra Costituzione. E si operi anche nella repressione di forme di sfruttamento indegne di qualsiasi comunità umana. Non deve essere più ammissibile che nessuno mai (o quasi) venga giudicato colpevole di quanto accade nei luoghi di lavoro. Cosa che succede spesso per raggiunta prescrizione o perché sono passati troppi anni dai fatti e, quindi, risulta difficile se non impossibile verificare responsabilità individuali.

Si stabilisca che è primario l’obiettivo di diminuire infortuni, malattie e morti sul lavoro e si verifichi periodicamente cosa sta accadendo. E si investano grandi risorse finanziarie. Si assumano ispettori del lavoro, si faccia formazione a chi lavora, a chi controlla. Si diano gli strumenti adeguati a chi deve giudicare, si facciano i processi in tempi brevi e ragionevoli (soprattutto per le vittime) e si inaspriscano le pene e le sanzioni che non possono più essere semplici multe o qualcosa di troppo “benevolo” di fronte alla gravità dei fatti. Non si chiede vendetta ma giustizia.

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Giorgio Langella
Giorgio Langella è nato il 12 dicembre 1954 a Vicenza. Figlio e nipote di partigiani, ha vissuto l'infanzia tra Cosenza, Catanzaro e Trieste. Nel 1968 il padre Antonio, funzionario di banca, fu trasferito a Lima e lì trascorse l'adolescenza con la famiglia. Nell'ottobre del 1968 un colpo di stato instaurò un governo militare, rivoluzionario e progressista presieduto dal generale Juan Velasco Alvarado. La nazionalizzazione dei pozzi petroliferi (che erano sfruttati da aziende nordamericane), la legge di riforma agraria, la legge di riforma dell'industria, così come il devastante terremoto del maggio 1970, furono tappe fondamentali nella sua formazione umana, ideale e politica. Tornato in Italia, a Padova negli anni della contestazione si iscrisse alla sezione Portello del PCI seguendo una logica evoluzione delle proprie convinzioni ideali. È stato eletto nel consiglio provinciale di Vicenza nel 2002 con la lista del PdCI. È laureato in ingegneria elettronica e lavora nel settore informatico. Sposato e padre di due figlie oggi vive a Creazzo (Vicenza). Ha scritto per Vicenza Papers, la collana di VicenzaPiù, "Marlane Marzotto. Un silenzio soffocante" e ha curato "Quirino Traforti. Il partigiano dei lavoratori". Ha mantenuto i suoi ideali e la passione politica ed è ancora "ostinatamente e coerentemente un militante del PCI" di cui è segretario regionale del Veneto oltre che una cultore della musica e del bello.