Vendere i gioielli della Corona per fare cassa; tagliare pesantemente il personale e cedere a più non posso sofferenze e incagli per pulire il più possibile il bilancio dalle scorie. Con un grande assente: i ricavi, che languono. Se si analizzano i poco più di 1000 giorni della gestione di Jean Pierre Mustier alla guida di UniCredit la fotografia che emerge è questa.
L’ex parà francese ed ex capo dell’investment banking di Société Générale ha appena chiuso il blitzkrieg in due tappe della cessione del 35% di Fineco, la regina dell’asset management portando a casa oltre 2 miliardi cash. Appena insediato sulla tolda di comando della banca, nel 2016, fu lui a concretizzare l’uscita dai gioielli Pekao e da Pioneer. Altri due pezzi pregiati che hanno portato nelle casse di UniCredit un bottino di 7,4 miliardi. In fondo, dopo oltre 4 aumenti di capitale e perdite cumulate dal 2008 per oltre 20 miliardi, la banca tornava a incassare denaro anziché chiederlo ai suoi stremati soci. Con un prezzo da pagare però. Privarsi per sempre di asset redditizi. Ma evidentemente Mustier ha sempre pensato ad altro.
Il suo obiettivo principe era ridare solidità finanziaria al gruppo, rendere UniCredit una banca di nuovo appetibile per il mercato sul piano della forza patrimoniale. Obiettivo certo riuscito con le agenzie di rating che hanno di recente alzato la pagella di affidabilità del gruppo. Obiettivo che ne portava con sé un altro strettamente correlato: pulire il più possibile il bilancio dalla zavorra dei crediti malati. Anche qui vendendo a più non posso, a prezzi anche molto bassi cumuli di sofferenze. UniCredit come riporta Moody’s “ha abbassato lo stock di Npl, scesi a 37,6 miliardi di euro del primo trimestre 2019 dal picco del 2014, pari a 84,4 miliardi”. Il tutto condito con un recupero di redditività. Dopo il buco da oltre 11 miliardi del 2016, Mustier è riuscito a riportare in utile la banca con profitti netti cumulati nel biennio 2017-2018 per oltre 9 miliardi. E con un ritorno sul patrimonio che per la prima volta dopo anni supera il costo del capitale. Tutto bene per il mercato finanziario. Musica per le orecchie degli investitori.
Ma la rivoluzione dell’ex parà è davvero tutta e solo finanziaria. La banca infatti è dimagrita pesantemente sotto la sua guida, che non fatto altro che proseguire, acuendola, la cura dimagrante dei suoi predecessori. A pagare il prezzo sono stati i lavoratori. Solo con il suo piano triennale Transform, Mustier ha già lasciato a casa 14.700 dipendenti con 950 sportelli chiusi a livello globale. Oggi i dipendenti sono 86mila (di cui almeno 40mila in Italia); erano 100mila al suo arrivo e addirittura superavano i 140mila nel 2013. E ora come se non bastasse le indiscrezioni rivelate da Bloomberg su un nuovo taglio secco di 10mila dipendenti (soprattutto in Italia) previsti nel nuovo piano industriale che sarà presentato a dicembre. La banca ha reagito con un “no comment”, ma se così fosse sarebbe l’ennesima conferma che il modello di Mustier è quello di fare risultati più con il taglio dei costi che con lo sviluppo dei ricavi.
I sindacati, Fabi in testa, hanno reagito con vigore a questa nuova doccia fredda. Ne hanno ben donde. La banca ha oggi un rapporto tra costi e ricavi poco sopra il 50%, un livello quasi di eccellenza non solo in Italia ma anche in Europa. Non c’è nessuno squilibrio sul lato ricavi-costi. Piuttosto è qui che Mustier, che pare ossessionato solo dall’efficienza (peraltro già conseguita), non ha dato grande segno di sé. I ricavi della banca sono oggi lontani anni luce da quelli pre-crisi. Nel 2009 quelli totali erano di oltre 27 miliardi, oggi sono poco sotto i 20 miliardi. Del resto la banca ha tirato il freno sui prestiti. I volumi di credito erogato sono scesi di oltre 30 miliardi dal 2013. E se non presti fai meno margine d’interesse e rimangono solo i tagli.
Il risultato di gestione industriale è stato ottenuto dai vari Mustier, Ghizzoni e predecessori grazie al taglio dei costi, mentre i ricavi calavano. Solo negli ultimi 6 anni i costi operativi sono scesi di oltre 4 miliardi. Il costo degli 86mila dipendenti vale oggi solo 6 miliardi, il 30% del monte ricavi, certo non una cifra insostenibile. In più va detto che la pulizia di bilancio ha portato e porterà a sempre minori svalutazioni dei crediti che consentono a Mustier, che conta su 9 miliardi di margine industriale, di portare a casa un utile netto che a fine 2019 replicherà in meglio il già buon risultato del 2018 (3,9 miliardi di utili) con 4,7 miliardi di profitti netti stimati. Vista così non si capisce tutta questa voglia di tagliare dell’ex parà. Tra l’altro l’accetta sarà rivolta all’Italia, che oggi vanta, dopo anni di crisi, una profittabilità migliore delle attività in Germania o in Russia. Forse l’obiettivo recondito di Mustier è un altro. Sottaciuto, sminuito, minimizzato ma sempre presente: fare di una Unicredit snella sui costi, forte patrimonialmente e ripulita dalle sofferenze il deus ex machina di una fusione paneuropea (leggi Commerzbank e/o Société Générale) dove la banca di Piazza Cordusio non sia preda ma predatore. In fondo Mustier viene dalla finanza e della grande finanza vuole essere il protagonista. Tanto il costo lo pagheranno, come hanno finora pagato, i lavoratori.