Basta solo scavare più affondo, appena sotto la crosta superficiale di asfalto, per scoprire uno dei nuovi esercizi delle organizzazioni criminali. Le chiamano “strade al veleno”, in quanto il nucleo sotterraneo dei conglomerati bituminosi è composto da aggregati tossici: metalli pesanti, fluoruro, bario, piombo, arsenico, mercurio, diossine o sostanze altamente cancerogene, come il cromo esavalente, sono impastati nel cemento e nel calcestruzzo.
UN RISPARMIO?
Il “concrete green” veniva venduto a 17 euro al metro cubo quando in media ne costa 242
Lingue grigie che covano in seno scorie nocive, con particolare affluenza nelle aeree industrializzate del Nord Italia. Tra Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna sono oltre 120 i comuni su cui sono stati sversati, sepolti o incapsulati, tra il 2014-2016, oltre 720 mila tonnellate di conglomerato miscelato con sostanze tossiche utilizzato poi come sottofondo stradale. Il processo giudiziario, iniziato nel 2019, arriva come primo segnale di un’operazione promossa dalla procura Distrettuale antimafia di Venezia che, come si evince dagli anni presi in considerazione, è solo agli albori.
“Questo fenomeno ha conosciuto un primo momento di incredulità, al solo pensiero che i criminali potessero arrivare ad avvelenare interi pezzi di territorio dove loro stessi vivevano e vivono – commenta Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare antimafia – Oggi è una terribile realtà conclamata che vede i rifiuti essere una risorsa economica per le mafie attraverso il loro smaltimento illegale. Molte volte grandi opere pubbliche hanno avuto il sospetto di interramenti di rifiuti di ogni genere. Lo stesso nel privato: bisogna procedere serrando i controlli ma aiutando le piccole imprese nello smaltimento corretto dei rifiuti”.
Nella gara delle colpevolezze, sono molte le arterie dell’Italia a nascondere irregolarità. E anche se ad Acerra, secondo la Dda di Napoli, la camorra avrebbe costruito una scuola materna con cemento miscelato ad amianto e scarti di acciaierie, la questione dello smaltimento selvaggio dei rifiuti, dopo il maxi processo “Aemilia” ai danni della ‘ndrina Grande Aracri, sembra ormai aver messo le radici nel settentrione. Nel caso dei 120 comuni tra Lobardia, Elia Romagna e Veneto, il materiale sotto accusa è il concrete green: un conglomerato cementizio che in teoria dovrebbe essere un calcestruzzo composto da almeno il 10% di materiali riciclati e soprattutto prodotto in impianti al 100% di energia rinnovabile. Quello utilizzato, viceversa, di green ha ben poco, come del resto indicava il prezzo cui veniva venduto: 17 euro al metro cubo contro i 247 dei conglomerati ecologici.
Precisamente tra le province di Rovigo, Ferrara, Bologna, Modena, Mantova, Verona e Padova, la miscela impiegata non solo non era stata trattata con i giusti criteri, ma al posto di materiale riciclato sono state occultate sostanze tossiche che le aziende hanno smaltito illecitamente. Il risultato? Se gli stessi istituti ambientali, tra cui l’Arpa, minimizzano sull’impatto degli inquinanti presenti nei conglomerati e su una possibile contaminazione per lisciviazione in falda, la fragilità strutturale del sottofondo, impropria a certi stress e a determinati carichi, ha già prodotto i primi risultati: numerose strade dell’Alto Mantovano, negli ultimi mesi sono state squarciate da voragini improvvise nell’asfalto.
Strade interpoderali ma anche opere di rilievo poggiano le loro radici sul frutto del tritarifiuti abusivo. È emersa anche l’apertura di una procedura di controllo da parte degli enti regionali di Mantova, – di cui il Fatto può dare conto – in merito ai materiali impiegati per la costruzione del ponte sul fiume Po, tra i comuni di Bagnolo San Vito e San Benedetto Po. Un sospetto che se confermato, alzerebbe il livello di gravità e andrebbe a ingrassare la già colma lista di grandi opere dalla livrea candida e il cuore contaminato. Dalle scorie rinvenute nella rampa d’accesso dell’autostrada Serenissima a Roncade e in un parcheggio dell’aeroporto Marco Polo di Venezia. Per poi passare al trasporto su rotaia, con un tratto dell’Alta velocità talmente inquinato da dover essere bonificato (evento più unico che raro in questi casi), e infine arrivare allo smaltimento illecito della Brebemi (l’autostrada A35) dove le enormi concentrazioni di cromo esavalente hanno portato Roberto Pennisi, sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia, ha definire il varco una discarica sotterranea “servita solo per interrare rifiuti”.
Sempre per i rifiuti interrati, processo in corso per l’autostrada Brescia-Bergamo-Milano e per la Valdastico sud, con relative aziende coinvolte. Sono migliaia le tonnellate tossiche trovate nei sottofondi del troncone compreso fra Rovigo e Vicenza della Valdastico. Proprio per quest’ultima il prossimo 17 dicembre inizieranno le fasi finali del processo: i responsabili legali di quattro aziende (due lombarde e due venete) rischiano fino a sette anni e mezzo per smaltimento abusivo di rifiuti e frode in commercio. Come conferma il legale delle associazioni ecologiste che si sono costituite parte civile, Edoardo Bortolotto: “L’incognita rimane la possibilità di una rigenerazione del tratto a carico delle aziende imputate, troppo costoso e difficilmente realizzabile”.
“C’è bisogno di una collaborazione stretta tra le forze dell’ordine, penso ai carabinieri forestali, e ogni parte dello Stato che ha la protezione dell’ambiente come suo obiettivo primario. Non è solo con la repressione ma soprattutto con la prevenzione che si può venire a capo di problematiche così complesse”, spiega Morra.
Il sistema mafioso, durante questi anni, ha sempre trovato fedeli “teste di legno” nella classe imprenditoriale. Sono infatti le discariche, i capannoni o le cave il fulcro di smistamento e di stoccaggio di quel ciarpame che passa da rifiuto a sottofondo stradale per mero tornaconto.
Tornando all’inchiesta dei 120 comuni del Nord Italia, il suddetto concrete green veniva prodotto dalla Tavellin Green Line srl assieme al Consorzio Cerea spa, società fondata nel 1996 a capitale pubblico-privato, di cui l’omonimo Comune detiene il 20% di quote. C’è poi la Cosmo Ambiente di Noale, dove i carabinieri Forestali di Mestre hanno sequestrato 280mila tonnellate di rifiuti tossici e pericolosi che sarebbero stati mescolati con scarti in regola per ottenere un materiale, chiamato “Ecocem”, da usare per rialzi stradali.
Spostandoci di qualche chilometro, il fumo acre dell’incendio del 14 ottobre 2018 nel deposito di via Chiasserini, a Milano, una volta diradatosi ha scoperto pesanti retroscena. Oltre alle recenti condanne per Aldo Bosina, amministratore della Ipb Italia, società che gestiva il capannone, condannato a 6 anni e 6 mesi, e per gli altri imprenditori coinvolti, il maxi rogo avrebbe dato origine a un’indagine mirata a scovare i siti appositamente affittati, nel veronese e nel milanese, per gestire il traffico illecito di rifiuti, successivamente impastati nei composti, provenienti dalla Campania e della Calabria.
Al di sopra delle ricette tossiche c’è inoltre una sorta di corazza endogena sviluppata nel tempo per mimetizzarsi. “Volendo fare un esempio, prendiamo due aziende: una con un’immagine di alto profilo e un’altra con un’immagine macchiata proprio dal veleno di cui sopra. Spoiler: in sostanza, fra le due c’è poca differenza”, chiarisce Alberto Zolezzi, parlamentare del M5S e componente della commissione Ambiente. “L’azienda virtuosa recupera scorie di inceneritore e, dopo aver separato i metalli grossolani e aver ottenuto delle frazioni granulometriche, vende il materiale a prezzi ampiamente inferiori ai costi di trasporto. Per una terza società del settore il prezzo è di circa 0,5 euro/tonnellata, nonostante la distanza che può dividere gli impianti: il costo di trasporto per un camion di almeno 30 tonnellate infatti è nell’ordine di grandezza di 1,5 euro/km, quindi circa 540 euro, cioè 18 euro/tonnellata. Grazie a questo sconto sulle materie prime, le aziende che si riforniscono sia dalla realtà virtuosa sia da quella indagata diventano estremamente competitive e in grado di acquisire, giocando a ribasso, quasi tutti i lavori per la realizzazione di sottofondi stradali. Il materiale venduto ha un valore negativo a tal punto che entrambe le aziende sono disposte a perdere denaro pur di disfarsene”. Il perché di questa mossa? Gli scarti andrebbero classificati come rifiuto, in quanto il produttore sembra nella posizione di volersene disfare (art. 183, comma 1, D.Lgs 152/2006), mentre con il passaggio di consegne parallelo il materiale esce dal circuito e beneficia della possibilità di essere usato come prodotto. Il tutto, sommerso nelle ombre delle normative vigenti.
di Pietro Mecarozzi da Il Fatto Quotidiano