Vent’anni in Veneto, l’indagine sui duemila del sociologo Stefano Allievi sul CorVeneto: “fiducia tradita da Mose e crollo Popolari”

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Ex sede centrale BPVi
Ex sede centrale BPVi

Non è facile tracciare un bilancio di questo ventennio. Ma la tentazione della cifra tonda è forte: in fondo ricordiamo i ’60 come gli anni del boom, i ’70 come quelli della protesta, gli ’80 del riflusso, i ’90 non lo so più. Proviamo quindi ad analizzare insieme gli anni 2000, che sono quelli della pervasività tecnologica, e gli anni ’10, che ricorderemo come quelli della grande crisi (iniziata prima, è vero) da cui non ci siamo più ripresi. La demografia è il primo tassello di un mosaico inedito: le cui tendenze hanno radici nel secolo precedente, ma delle cui conseguenze ci accorgiamo solo adesso. Le nascite sono crollate, e siamo sempre più vecchi: già oggi nel Nordest per ogni under 15 ci sono due over 65; un veneto su cinque ha più di 65 anni, ma tra dieci anni sarà uno su quattro; abbiamo un rapporto tra popolazione attiva e pensionati di tre a due, ma prima del 2050 sarà di uno a uno; e sul territorio intere aree si stanno spopolando – restano solo i vecchi – e rischiano di essere abbandonate.

In più abbiamo ripreso a emigrare (con il Veneto stabilmente seconda regione per numero di «expat»: impensabile all’inizio del ventennio), mentre l’immigrazione si è ormai consolidata nel passaggio generazionale, grazie ai nuovi italiani nati qui.

Immigrazione e paure

Ma di queste immigrazioni abbiamo sempre più paura. Da un lato ci tocca ammetterne (obtorto collo) l’indispensabilità nel mondo del lavoro, dall’altro non ne vogliamo accettare le implicazioni, anche solo nella visibilità delle città, ed erigiamo nuovi muri, mentali prima che fisici (e anche burocratici e legislativi: cambiando i regolamenti comunali in senso escludente per i residenti recenti, approvando leggi intitolate «prima i veneti» o contro le moschee). Del resto non è una tendenza né solo veneta né solo italiana. Dopo il periodo di ottimismo seguito alla caduta del muro di Berlino, di cui abbiamo appena festeggiato il quarantesimo anniversario, in Europa si sono costruiti quasi mille chilometri di nuovi muri fisici, cui si devono aggiungere quelli culturali, con il ritorno di fantasmi di quasi un secolo fa: dai nazionalismi (anche in versione micro) alla ricerca dell’uomo e di soluzioni forti, fino all’emergere dei capri espiatori, antisemitismo incluso.

I passaggi cruciali del primo ventennio

Under e over Già oggi nel Nordest per ogni ragazzo under 15 ci sono due over 65; il rapporto tra attivi e pensionati è di tre a due. Non è strano. Il ventennio era iniziato all’ombra cupa dell’attentato terroristico alle Torri Gemelle, l’icona tragica che ha aperto il secolo e il millennio. Non c’entrava con l’immigrazione, ma con la paura delle culture e religioni altre sì: e ha finito per segnare il dibattito sul tema. Sembrava ci avesse cambiato per sempre: nel modo di viaggiare, nelle abitudini quotidiane. E invece anche al terrorismo ci siamo abituati: occupandocene quando ne sperimentiamo le reviviscenze in Occidente, e dimenticandolo per tutto il resto del tempo, tanto insanguina altri lidi. Così per le guerre infinite, che continuiamo a portare avanti senza senso, e senza ribellarci. Né l’Afghanistan né l’Iraq né la Libia sono diventati un Vietnam, o una qualche altra rivoluzione per cui simpatizzare. Nemmeno le primavere arabe, pure nate in nome di valori che diciamo nostri: che non abbiamo aiutato. La cifra interpretativa di questi anni sembra il disinteresse per quello che succede altrove, e la mancanza di mobilitazione.

Il ritorno dell’individualismo

Si spiega, forse. Nella società è emerso un individualismo diffuso, che ha portato all’enfasi sui diritti soggettivi anziché su quelli da rivendicare collettivamente. Legati all’identità sessuale (prima del 2000 nessun Paese al mondo riconosceva i matrimoni omosessuali) o alla bioetica (il diritto di morire, comparso inaspettatamente sul palcoscenico della storia), ma in realtà pervasivi e presenti in ogni campo: creando una nuova tendenza, il «dirittismo». Con l’individualismo si è diffuso il rancore di massa, la rabbia sorda e inconcludente, senza obiettivi, pronta a sfogarsi alla prima occasione, nei confronti del nemico politico e del capro espiatorio di turno. E con il rancore si è innescato il ritorno delle tribù, l’insularità tra simili con lo stesso obiettivo (contro qualcuno più che per qualcosa). La tecnologia ha poi cambiato tutto. Non c’erano Facebook, Wikipedia, Youtube, Twitter, l’iPhone – tutti nati nel primo decennio di questo secolo. E con il progresso tecnologico e la nuova dimensione sociale si è accentuato il salto generazionale, una discontinuità netta, un prima e un dopo.

A questo processo ha contribuito la perdita dei riferimenti collettivi: i partiti, ma anche la Chiesa cattolica; ancora una preziosa riserva valoriale e di mobilitazione etica, ma in calo di consenso diffuso, anche perché percepita come troppo esigente: in contrasto con l’individualismo e il «dirittismo» di cui sopra. E così, chiusi ciascuno nel proprio particolare, abbiamo perso la capacità di investimento sul futuro, cui è seguito il pessimismo come orizzonte, dunque il disinvestimento da ciò che è comune. Come se si fosse persa la bussola, un orientamento, i punti di riferimento, le solide certezze che fanno sì che si sia capaci anche di grandi slanci, di nuove esplorazioni.

Dalle certezze ideologiche del Novecento, che forse ci hanno accompagnato (o almeno non abbiamo messo veramente in discussione) fino alla grande crisi iniziata nel 2008, siamo passati all’era della post-verità, che ha messo in crisi i media tradizionali e favorito i social network: alla presunzione (malfondata) di certezza e assertività, si sostituisce l’apparenza (anche di verità: le fake news), e al professionista dell’informazione, che cerca di conoscere il mondo per spiegarlo, si sostituisce l’influencer, che non propone che se stesso.

La sindrome dell’insicurezza

Nelle città – inclusa la metropoli diffusa che è tanta parte del nostro territorio – si è fatta strada una insicurezza vaga, percepita ma spesso irragionevole, reale in alcuni suoi indicatori eppure surreale nelle conseguenze che implicitamente se ne traggono. C’è la perdita di potere d’acquisto, la caduta dei salari reali, il dover intaccare i risparmi privati accumulati – forse troppo rapidamente, al punto da aver creato una illusoria o almeno eccessiva confidenza nelle proprie capacità – negli anni del modello Nordest. In una situazione in cui pure il lavoro c’è ancora (manca quello qualificato, semmai: che spinge i nostri giovani a emigrare) e la ricchezza privata è, in molte aree, largamente superiore a quella di paesi ben più ricchi del nostro. Ma è la fiducia nel collettivo che è crollata: a colpi di scandali come il Mose (la più grande mangiatoia della storia repubblicana) e di fallimenti delle banche locali – tutte cose per le quali era impossibile la ricerca di capri espiatori esterni. Ci si è accorti che era il «dentro» ad essere marcio: ma non lo si è accettato, e né la politica né la società hanno davvero voluto fare un esame di coscienza e una onesta operazione trasparenza.

Eppure il futuro è potenzialmente esaltante. Le possibilità saranno enormi: il problema sarà far crescere di pari passo la capacità di immaginarle e di gestirle. Longevità, scoperte scientifiche (incluse quelle che hanno a che fare con la salute), intelligenza artificiale e liberazione potenziale dal lavoro più duro in favore di quello creativo. Ma questo ci riporterà ai problemi sociali di sempre: in primis la lotta alle diseguaglianze, per fare in modo che quello che è a disposizione di pochi lo sia di tutti.

La politica non aiuta, visto che in essa – forse ancora di più in quella locale – dominano furbizie di breve termine e una deteriore condiscendenza. Che è il vero nome che dovremmo dare ai populismi: fare quello che si presume piaccia al popolo – contemplare il proprio ombelico e grattarsi – invece di educarlo e guidarlo da qualche parte, aprendo nuovi orizzonti. Il faut bien que je les suive, puisque je suis leur chef: poiché sono il loro capo, bisogna che li segua. E’ una frase attribuita a un politico francese di metà ’800, ma fotografa bene la politica di oggi. Il capo politico non è più qualcuno che con-duce da qualche parte, ma al contrario uno condotto – dai sondaggi e dai like a un post su facebook o a un tweet. Questo fenomeno, durato già troppi anni, sta tuttavia provocando reazioni impreviste. Nuovi movimenti di presa di coscienza collettiva (l’opposto del grattarsi) e la ricerca di riferimenti altri: da Greta Thunberg in giù. Giovani che cercano leader della loro stessa età perché non trovano adulti in cui riconoscersi. Elemento anche questo del gap che separa le generazioni: e più simbolico di altri. E’ come se stessimo toccando il punto più basso, che prepara il rimbalzo. Potremmo riassumerlo con una qualità e una parola diventata popolare – non a caso – in questi ultimi anni, e che forse caratterizzerà i prossimi: resilienza. La capacità di adattarsi al cambiamento, reagendo in maniera costruttiva agli eventi, anche traumatici. Ne avremo bisogno.

La fiducia tradita

Scandali di proporzioni enormi come la corruzione sul Mose o il crollo delle Popolari hanno fatto cadere la fiducia nel collettivo. La nuova dimensione social ha creato una discontinuità netta tra un «prima» e un «dopo»

di Stefano Allievi dal Corriere del Veneto