Appunti disordinati di viaggio: il Sa(Lento), da Gallipoli a Leuca a Otranto… Dove la pizzica smuove l’anima e la taranta trasforma il corpo

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Dal e
Maurizio Mascarin dal e "nel" Salento

“I giorni rinascono dai giorni, l’uno dall’altro…” ( M. Luzi) Nei giorni di primavera, a maggio 2022, accompagnato dall’euforia di vedere, toccare, incontrare, ho attraversato, nel Salento, vibranti terre messapiche, borghi straripanti di barocco, campagne costellate di masserie, interminabili tracciati di mura a secco.

Di terra e di mare.

In questi giorni, mi sono nutrito di quel profondo Jonio che ha partorito Miti, Eroi, Leggende e di quel tratto di mare Adriatico che, nel golfo d’ Otranto, tracima  storie di mercanti e pellegrini, di banditi e corsari.

Anima del mondo vieni, infonditi in noi...” (J.W.Goethe)

In questi giorni, ho recuperato il piacere della luce esaltante: il bianco dominante delle case a corte; il giallo miele-paglierino dei palazzi gentilizi; il rosso della terra degli orti di costiera; l’azzurro dei cieli spazzolati dal grecale; le strisce  blu cobalto, pennellate a zig zag, che segnano gli abissi dello Jonio più inquieto.

“Emozioni contrastanti, così vitali da intimorire: affascinano e spaventano”. (cit.)

In questi giorni ho riassaporato l’ebrezza che sa offrire il magico soffio di Eolo: il vento. Lui qui ti accompagna sempre, da protagonista: scompone il cielo e disegna l’onda del mare.  E poco importa che sia libeccio o tramontana, grecale, scirocco o maestrale. Questo vento salentino che gioca col mare nutre l’epidermide del Corpo. E s’insinua nell’Anima.

Dove vivono le emozioni. Sono sceso al Sud, in Salento, dove la pizzica smuove l’anima e la taranta trasforma il corpo. Suoni e danze arcaiche, ancestrali, di quel Salento più autentico che tarda a morire.

Cerco cose, cerco natura; cerco uomini e bestie; cerco sole e vento; cerco le sagome umane dei cactus; cerco le dune  che fanno da cornice al mare, la sabbia fine della lunga spiaggia che da Torre San Giovanni porta a Torre Vado. Cerco lo scoglio che buca i due mari, Santa Maria di Leuca; lo scoglio metafisico di San Gregorio e quello muscolare del Ciolo.

Cerco emozioni: le albe arabeggianti di Otranto, i tramonti incendiati di Gallipoli; l’infantile immagine della barchetta solitaria in mezzo al mare; le mani esperte di chi nelle campagne ancora intreccia il giunco, le mani abili dei pescatori che ancora riparano le reti con gestualità primitiva.

Cerco l’orizzonte che c’è: quello infinito che porta al sogno  e quello che, con un po’ di fortuna (combinazione meteorologica), puoi scorgere e toccare: laggiù la costa albanese all’altezza di Leuca, laggiù la costa calabrese e  il faro di Capo Rizzuto all’altezza di Torre Vado, Pescoluse, Posto Vecchio.

“… e così ridar forma a ciò che è creato (…)  e ciò che non era ora vuole divenire” (da Uno e tutto, J. W. Goethe).

E poi cerco gli ulivi, tutti gli ulivi di questa terra: da quelli centenari tramortiti e bruciati dalla xilella a quelli che ancora vivono, producono e si raccontano attraverso le loro forme scomposte; cerco le piante di una volta, quegli alberi di fichi e di nespole che ricordano i mie anni di bambino; non lo nego, in fondo cerco ancora la casa accogliente di mia nonna Natalina: una  casa bianca con il suo orto, il suo giardino e l’albero di cachi. “Un caco al giorno allunga la vita”, quella era la sua ricetta della salute.

Quale mare? Quale terra? Una voce fuoricampo mi sussurra che, nella continua contesa dell’esistenza “stiamo sempre incominciando…”. (Fernando Pessoa).

Romanzo polifonico. Ci sono piaceri che passano, emozioni che restano: il linguaggio del mare e il linguaggio della terra. Un linguaggio polifonico. Ascolto il suono stridulo e incessante delle cicale. Loro cantano, le agavi stanno in signorile ascolto.

Cerco una palma da abbracciare e quel gabbiano pellegrino che dai tempi di Ortigia mi insegue con il suo volo protettivo nell’ovunque Mediterraneo, e oltre: da Famagosta al Karpaz, da Conil de la Frontera a Sègres, da Lijgia a Cefalonia, dal Finisterre galiziano al Finibus terrae salentino.

(Scorgo un ombreggiante albero di pepe Nero, mi metto sotto la sua ombra e scrivo qualche appunto disordinato).

Lontano dai rumori metropolitani e dalle inquietudini del nord, con il passo lento del viandante osservo le palazzine gentilizie (ben ristrutturate) del centro storico di Morciano, che regalano un pantone variegato di sfumature, dal bianco calce abbagliante all’ambrato leccese.

M’infilo dentro a case dal soffitto a stella, il cielo di casa della povera gente ai tempi delle dominazioni e dei ducati. Sotto quel tetto che punta in Alto-  che grida “ Dio ci aiuti” – un tempo ci stava il Mondo; quel tetto non era un riparo, era la stessa Vita.

Via Roma, Morciano. Ho preso casa a Morciano di Leuca, che dista 1 chilometro e mezzo dal più noto centro di Patù e circa 5 chilometri dalla litoranea che affianca la spiaggia attrezzata di Torre Vado, che in piena estate è un formicaio di corpi al sole, ma che ora, in tarda primavera, è un’oasi di pace.

Morciano non è una località famosa come la sopravvalutata Specchia – che oramai è una sorta di colonia annessa al  lombardo-veneto–, e già questo mi conforta. Nel mio vi-andare  prediligo i luoghi minori, (s)conosciuti. Spesso sono fonte di sorpresa e, talvolta, sanno stupire.  Da subito, fin dal primo impatto, a Morciano respiro l’aria di un Salento ancora vero, nostrano, senza fronzoli tecno-consumistici per i turisti. So di essere un forestiero, ma percepisco che la gente del posto non mi annovera nel mucchio di quei vacanzieri che scendono quaggiù per la tintarella al mare, le discoteche di Gallipoli, la cena esotica al lume di candela tra le Mura di Otranto.

Ogni paese, da nord a sud della Penisola, ha una sua via Roma. Ecco, io abito in una confortevole casa a corte, da poco ristrutturata, situata in via Roma, al civico x.  Il contesto che mi circonda è da vero sud. Solare. Luminoso. E non solo architettonicamente.

Attorno all’abitazione in cui dimoro si alternano tipiche case a corte – ristrutturate e non – e palazzine signorili del Sei- Settecento di tufo tinta miele. Nelle ore successive al mio arrivo, scopro che vicino casa ho praticamente tutto: il comando della polizia locale, la biblioteca comunale, la premiata pizzeria d’asporto “Core a Core”,  la parrocchiale di San Giovanni, persino un moderno salone di barba-capelli. Più oltre, nell’isolato adiacente, un familiare  minimarket, comunque ben fornito di frutta e verdure e di un ottimo prosciutto crudo locale. Costa la metà di un San Daniele o di un Sauris, e questo fa bene al portafogli.

Vengo a conoscere un vicino di casa. Si chiama Cosimo, è ritornato a Morciano dopo quarant’anni di fabbrica in Svizzera.  “Sto di nuovo a Morciano da un anno. Per me non è la gioia di un ritorno, porto con me la nostalgia della Svizzera pulita e ordinata. Qui è bello stare in vacanza, non viverci”.

Io del nord che amo il sud, il salentino Cosimo che si sente figlio adottivo di Gugliemo Tell. Capisco che Cosimo ha voglia di raccontarsi. Lo lascio parlare. Poi insiste per farmi vedere la sua abitazione: una umile stanza in cui c’è tutto quel che serve, dal gas al divano letto in cui dorme, più un bagnetto dai muri consumati dall’umidità.

“Quando potrò me la metto a posto, ma ora mi mancano gli euri. Oppure la vendo a uno del nord come voi. Anche Morciano iniziano ad arrivare i forestieri. Comprano una vecchia casa bianca e la ristrutturano sino a farne un gioiellino”. Saluto Cosimo portandomi l’impressione che lui cerchi un dio più vicino. In Svizzera.

La casa bianca e ben ristrutturata che mi ospita è essenziale, tipicamente salentina: soffitto a stella, intarsi di pietra e tufo,un ampio cortile. Più sotto, raggiungibili attraverso una botola, le tradizionali vie sotterranee dell’olio: sterne, frantoi, cantine.

(…) E’ sempre la pietra  il vero dettaglio. E’ lei che detta il genius loci. Mi allontano dallo sciabordio esoterico che il mare di San Gregorio regala alle anime in ascolto.

Da lì salgo a Patù.

E’ un tardo pomeriggio, ma non è ancora tempo di struscio, di feste di piazza. Siamo a maggio, il mese della Madonna; attorno al capitello mariano che sta a mezza via tra Morciano e Patù noto alcune (poche) donne vestite di nero che pregano. Un’anziana col rosario in mano intona l’Ave Maria e poi tutte le altre la seguono in coro. Una litania, un mantra. Sto in ascolto per qualche minuto, poi riprendo il cammino.

Quando giungo alla rinomata chiesetta di Centopietre, scopro che quel pezzo di storia oggi è solo per me. Non c’è nessuno.

(Più tardi).

A rompere il silenzio la voce di due uomini, due fratelli di mezza età che se la raccontano seduti sugli scalini di casa. Mi indicano il tratto di via Francigena che dalla chiesa di Centopietre porta a Leuca. Sono solo 5 chilometri. L’ho percorsa qualche anno fa. Merita. Ma per oggi ho altri programmi.

Oltrepasso la piazza della chiesa parrocchiale di Patù, dove quattro anziani giocano a carte all’ombra di un leccio. Mi ignorano. E lo trovo strano, visto che qui, notando il mio essere forestiero, tutti mi hanno dato un cenno di saluto. Poi la sorpresa. Metto l’occhio su una insegna comunale  che orgogliosamente recita : “A Patù i bambini giocano ancora per strada”. Non è uno slogan, è proprio vero. Giro lo sguardo e vedo con i miei occhi un drappello di piccolini giocare a pallone lungo la strada…Cose di un altro mondo, per chi vive nel caotico nord. ( post scriptum: qualcosa mi porta a pensare una  bella canzone di Adriano Celentano, Il ragazzo della via Gluck.  “…là dove cresce l’erba ora c’è una città… e quella casa in mezzo al  verde  ormai dove sarà?…è una fortuna , per voi che restate, giocare a piedi nudi  nei prati,  mentre noi respiriamo cemento…”).

Diamine, qui crescono ancora i  bambini come una volta. Discoli. Scaltri. Felici: sono i bambini di Patù.

Enigmatica Leuca. Ogni qualvolta scendo a Leuca mi pongo la stessa  domanda: “Leuca è davvero l’ultimo, estremo lembo di terra o lo è solo per la cartografia costiera?” A me che  da un lato di Leuca ci sia  lo Jonio e  dall’altro l’Adriatico non mi interessa più, lo trovo didascalico, limitativo. Io a Leuca vedo e sento il mare largo, il Mediterraneo vasto che tocca la  costa del Libano e che in Andalusia, a Tarifa,  incrocia l’Atlantico. Lasciatemi questo sentire, questo percepire, questa  illusione.

Marina Serra. Tira il grecale. Le piscine di roccia carsica di Marina Serra, in un giorno soleggiato di tarda primavera, moltiplicano il loro incantevole fascino. Un tempo approdo per le barche dei pescatori, ora sono un’attrazione turistica: c’è chi fa il bagno tra la grotta e il mare largo, chi cerca la prima abbronzatura. Mi siedo tra le pietre che circondano il chiosco, dissetandomi con una  fresca Corona al limone; leggo qualche pagina del libro che porto con me, “Fatti guidare dalle stelle” di Alessandro Vanoli, che mi invita a navigare, dentro e fuori dal tempo,  tra i porti e gli approdi del nostro Mare.

LEI Tra una pagina e l’altra, lo sguardo cade su una ragazza esile, dalla carnagione particolarmente chiara e dal passo elegante, che va a sdraiarsi poco lontano da me. Indossa una camicetta di chiffon beige che lascia intravvedere, senza volgarità, il suo seno minuto; con leggiadria indossa degli hot pants in jeans, che accentuano le sue lunghe gambe dalle caviglie sottili. Non lo nego, ho sempre avuto un debole per questo tipo di donna dalla fisicità magra, asciutta. Ecco, nel mio immaginario lei è già una ballerina di danza classica, una stella della Scala o del Bolchoj.

Fuorisacco. Mentre leggo di turchi e veneziani che si battagliano a Famagosta, non mollo lo sguardo su di lei. La trovo  sublime.  Mi domando che cosa ci fa a Marina Serra una bella ragazza così poco interessata ai bagni di mare.

(alcuni minuti dopo). Inaspettatamente, lei mi si avvicina. E con un italiano che tradisce una elegante e sensuale erre arrotata francese mi chiede che cosa stia leggendo.

“Un libro che parla delle tante vite del nostro Mediterraneo. Che racconta di Itaka, di Famagosta, di Venezia ai tempi del Primato”, rispondo.

“E’ interessante – dice – Mi piaccioni i libri di viaggio che descrivono un luogo, poi un altro, poi un altro ancora. Mi piacciono quando vanno oltre la fisicità, la materia del luogo, per interrogarsi su altre categorie di pensiero. Crede che ci sia la versione inglese di questo suo libro?”

No, lo escludo. Ma il suo italiano è così buono che non avrà difficoltà a leggerlo in lingua originale. Lo può comprare nel carrello libreria di Amazon”, le suggerisco.

Mentre conversiamo, incrociamo in nostri sguardi. I suoi occhi hanno il colore del mare, di questo pezzo di mare che oggi è soffiato dal grecale. Sulle guance, appena ambrate, alcune lentiggini, che rendono gli zigomi del suo viso meno severi e più gentili.

Non mi chiede di sedersi accanto a me. Lo fa, e basta. Così  ci troviamo vicini, pietra a pietra, sotto un sole che sta per affogare in mare come in un dipinto di Bruno Saetti.

(la sera, la notte, l’addio). Conversiamo sotto le stelle, a voce bassa, ascoltando i suoni della risacca, senza mai chiederci i nostri nomi, senza mai scambiarci i numeri di telefono, senza mai andare oltre. Poi ci salutiamo con un abbraccio pieno, intenso.

(I luoghi del cuore forse esistono davvero. Buona Vita Amica Mia).

Il mare di Morciano. Torre Vado è il mare di Morciano. Da lì, in direzione Gallipoli, si estende una spiaggia di sabbia fine e a tratti bianchissima che arriva fino a Torre San Giovanni, la spiaggia di Ugento. Dodici chilometri ininterrotti, a tu per tu col mare e col vento.

Via col vento. Passo davanti ad un chiosco sul mare di Pescoluse ancora in fase di allestimento per l’inizio della stagione balneare. Nel piccolo cantiere, tra decine di moduli di legno da issare, scorgo un cartello scritto a pennarello che dice: “Se vento e mare sono nella tua anima, allora questa è casa tua”. Se andate in Andalusia lungo  la spiaggia dei surfisti di El Palmar (siamo vicini a Tarifa, per intenderci) troverete la medesima citazione. Ovviamente in spagnolo.

Il terzo giorno di tramontana, con vento sostenuto e aria piacevolmente frescolina, regala un tramonto da cartolina. Me lo godo, istante per istante, dal plateatico del rèsort  “Cinque” di Torre Mozza, in compagnia di un calice di chardonnays.  Il sole che cade in mare  è più rosso che mai.  Istante dopo istante, continuo a fotografarlo. Ma ecco la sorpresa. Sulla linea un dell’infinito  appare dapprima  una sbiadita striscia grigia scomposta e poi il profilo sempre più nitido della costa calabra. Mi dicono  che laggiù è Capo Rizzuto, Capo Colonna, Le Castella e, più sotto, il  golfo di Squillace. Si vede anche la luce a intermittenza di un faro. E’ sorprendente come un evento naturale abbia la capacità di annullare la distanza geografica. La tramontana pulisce, spazza via il superfluo, e col suo lavoro avvicina le terre della Magna Grecia. E’ proprio vero che,in fondo, siamo tutti vicini di casa.

A passo lento. Osservo. Guardo. Vedo.” Dove sono finiti i perdigiorno di un tempo?”. Camminare lungo la costiera che da Torre San Giovanni porta a Mancaversa, al lido Pizzo e alla riserva della Suina  è tutto un altro andare. Non tengo il passo veloce, mi godo il piacere del passo lento, pigro di gamba ma non di testa.  M’intrattengo con le rocce, con gli elementi della macchia mediterranea – il mirto dalle bacche nere, il lentisco dalle bacche rosse, il corbezzolo dai  frutti eduli, il timo e il rosmarino – ; mi accompagno con il suono mantrico di questo mare dal carattere levantino. (…). Mi sento sereno e appagato.

Eccomi a Presicce, considerato tra i borghi più belli d’Italia. Ci arrivo in un pomeriggio domenicale attraverso strade secondarie caratterizzate da mura a secco, fichi d’india, piante di ulivi vivi e piante di ulivi morti (da xilella, ovviamente).

Alle diciassette, quando il sole è ancora alto, il borgo si presenta deserto. I balconi chiusi delle case confermano che la gente sta ancora chiusa in casa, davanti alla tv, per evitare le prime calure di maggio.

Presicce è l’esplosione esagerata del barocco, un nobile concentrato di pietra leccese e di bianche case a corte per metà ristrutturate, per l’altra metà in stato di degrado.  Conosco Anna,  una veneziana che da qualche anno si è trasferita a Presicce. Fa parte della Pro loco e di Presicce conosce ogni angolo di sopra e di sotto. Mi farà da guida tra i frantoi oleari sotterranei scavati a braccia sotto piazza del Popolo.

Cercavo Cose, ho percepito emozioni. Presicce non è mare, è una terra di mezzo tra campagne e costiera. Ma è nella terra di sotto che vive e si perpetua il suo segreto.

Baia Verde, al Sottovento. Caotica d’estate alla pari di Jesolo o di Rimini, in questo periodo Baia Verde mostra il suo lato onirico, dolce e sensuale. La vista della spiaggia, ancora non vandalizzata da ombrelloni e  lettini da sole, è un tributo alla bellezza del golfo di Gallipoli. Faccio sosta al chiringuito del lido Sottovento, che già conosco per la sua saporita cucina da spiaggia. Anche oggi la lavagna del menù non tradisce le mie aspettative: polpette di merluzzo imperiale con mayo all’aglio nero ecc ecc. Da non perdere, ve lo assicuro. Al faro dell’isola di Sant’Andrea che sta di fronte, ci andrò un’altra volta.

Le parole di  Otranto. Dall’alto dell’antica città murata ci si nutre di un mare affabile, gentile. Il desiderio di un bagno sotto la verticale delle mura, tra le piscine di pietra antica del vecchio porto, si fa forte. Mi ci butto anch’io? Detto e fatto. In quest’acqua ci si sente abbracciare dalla storia.

(…) Sono le Tredici. Anche se è l’ora di pranzo, per me è l’ora di un buon caffè in ghiaccio. Prendo posto in un tavolino  all’ombra del fish bar La Polperia,  che offre un ricco menù turistico e dove tutti già si abbuffano di pesce e/o mitili. Nonostante le belle portate che mi passano sotto gli occhi, io rimango fermo al mio caffè in ghiaccio, peraltro servito divinamente (…). Caspita, non me lo aspettavo. Sto gustando il mio caffè  seduto a pochi metri da una minuta libreria estiva. Non ha un’ insegna. O meglio, sopra il portoncino d’entrata c’è scritto semplicemente: “LIBRERIA”.  Eccomi dentro. Mi butto sullo scaffale numero 3 denominato “Andare lento”, poi su quello delle “Matite Visionarie e delle Apparizioni”. Esco dalla libreria con l’acquisto di una minuscola pubblicazione (ha il formato di un cellulare): “Il viaggio Jonico, 1959” di Pier Paolo Pasolini (“…Poi la strada lascia il mare e s’interna in una zona tutta gialla, con le colline che sembrano dune immaginate da Kafka…”).

Si torna al nord. Lascio il Salento, e un po’ mi inquieta. Lascio questi luoghi  “dove tutto è come bevuto, frastornato dalla luce (…) Dove tutto minaccia di non essere: la costa piatta, i paesi arabo-normanni, il mare…”. Quel Salento di Pasolini è ancora vivo, è ancora così.

Galleria fotografica… disordinata come gli appunti di viaggio

Panoramica del golfo d’Otranto. In primo piano, Il sole inciso sulla pietra da un artista ignoto che fa bella mostra in un tratto della balaustra dell’antica Fortezza
Panoramica del golfo d’Otranto. In primo piano, Il sole inciso sulla pietra da un artista ignoto che fa bella mostra in un tratto della balaustra dell’antica Fortezza
Un tratto di Jonio visto dall’alto dell’antico tratturo che dal Ciolo porta fino al Porto Vecchio di Novaglie
Un tratto di Jonio visto dall’alto dell’antico tratturo che dal Ciolo porta fino al Porto Vecchio di Novaglie
Dalle spiagge caraibiche ai tratti di scoglio- la variegata costa jonica del Salento va apprezzata con saggia lentezza, senza poi dimenticare il fascino dei borghi situati all’interno
Dalle spiagge caraibiche ai tratti di scoglio- la variegata costa jonica del Salento va apprezzata con saggia lentezza, senza poi dimenticare il fascino dei borghi situati all’interno
Baia di Gallipoli, un tipico tramonto salentino. Sullo sfondo, la sottile striscia della punta di Sant’Andrea che sta di fronte a Gallipoli
Baia di Gallipoli, un tipico tramonto salentino. Sullo sfondo, la sottile striscia della punta di Sant’Andrea che sta di fronte a Gallipoli
Ci si avvicina a Santa Maria di Leuca- di qua lo Jonio, di là l’Adriatico. Un tratto di mare e di scogliera
Ci si avvicina a Santa Maria di Leuca- di qua lo Jonio, di là l’Adriatico. Un tratto di mare e di scogliera
Da non perdere, per gli amanti del trekking, il sentiero Cipolliane. Inizia a sud in località Ciolo e si snoda per 2 chilometri e mezzo tra rocce, mare, profumi di macchia mediterranea
Da non perdere, per gli amanti del trekking, il sentiero Cipolliane. Inizia a sud in località Ciolo e si snoda per 2 chilometri e mezzo tra rocce, mare, profumi di macchia mediterranea
Il Salento non è solo mare. Siamo a Presicce, che racconta la sua storia antica e “sotterranea”. Vanta infatti 23 frantoi ipogei scavati nella roccia tra il 17mo e il 19mo secolo
Il Salento non è solo mare. Siamo a Presicce, che racconta la sua storia antica e “sotterranea”. Vanta infatti 23 frantoi ipogei scavati nella roccia tra il 17mo e il 19mo secolo
L'ingresso a Patù, il paese dei bambini
L’ingresso a Patù, il paese dei bambini
Olive nere, capperi e tant’altro. Eccoci tra i sapori del Salento. In questa immagine, i prodotti della terra esposti da un ambulante di Tricase nel suo mitico furgoncino Ape trasformato in negozio
Olive nere, capperi e tant’altro. Eccoci tra i sapori del Salento. In questa immagine, i prodotti della terra esposti da un ambulante di Tricase nel suo mitico furgoncino Ape trasformato in negozio
Un tratto di costa frastagliata tra Gallipoli e Torre San Giovanni- Punta della Suina. Il suo entroterra è caratterizzato da una ombreggiante pineta ricca di mirto, orchidee, calendule profumate
Un tratto di costa frastagliata tra Gallipoli e Torre San Giovanni- Punta della Suina. Il suo entroterra è caratterizzato da una ombreggiante pineta ricca di mirto, orchidee, calendule profumate
Uno scorcio di Marina Serra, suggestiva insenatura a sud di Tricase caratterizzata dalle sagome “teatrali “dei suoi archi, delle sue rocce, delle sue piscine naturali. Un tempo approdo per naviganti
Uno scorcio di Marina Serra, suggestiva insenatura a sud di Tricase caratterizzata dalle sagome “teatrali “dei suoi archi, delle sue rocce, delle sue piscine naturali. Un tempo approdo per naviganti
Una delle torri del castello aragonese di Otranto, fortezza che fu, nel 1764, la location del primo romanzo gotico della storia ”Il castello di Otranto", dell’inglese Horace Walpole
Una delle torri del castello aragonese di Otranto, fortezza che fu, nel 1764, la location del primo romanzo gotico della storia ”Il castello di Otranto”, dell’inglese Horace Walpole