A metà del I secolo avanti Cristo Vicenza diventa “municipium” di diritto romano “optimo iure” cioè con pieni diritti civili e politici per i cittadini (qui tutte le puntate di “La Vicenza del passato”, ndr). È l’annessione ufficiale della Venetia e di Vicenza alla Repubblica romana e conclude un percorso di inclusione pacifica del territorio dei Veneti iniziato due secoli prima e scandito da trattati di alleanza, da collaborazioni in attività belliche contro i Galli e da una grande opera pubblica (la Via Postumia) regalata – non certo senza tornaconto – dai Romani non solo ai Veneti ma all’intera Pianura Padana.
L’attribuzione dello status di municipium comporta un salto di qualità per Vicenza, fondata sei secoli prima alla confluenza fra i fiumi Astico e Retrone e lungo le antiche piste di collegamento con gli altri centri che erano nati e si erano sviluppati nella pianura. Vicenza, in particolare, era tappa dei percorsi che arrivavano dalla Retia a nord, da Padova e da Este (e dall’Adriatico) a sud, da Verona e da Treviso lungo l’asse centrale della pianura.
La città è piccola, conta poche migliaia di abitanti, la sua economia è basata su agricoltura e allevamento, sul commercio e su attività artigianali. Il livello di civiltà è già elevato: l’amministrazione pubblica è gestita da organi locali espressi dalle famiglie più importanti per censo e ricchezza; l’urbanistica è ordinata anche se condizionata dalla situazione geomorfologica del territorio; la religione ha una parte importante nella cultura e nella vita dei vicentini, com’è dimostrato dal santuario della dea Reitia che è un centro non solo di culto ma anche di istruzione.
L’abitato, però, è ancora piuttosto primitivo: le case sono in legno e paglia, non esistono edifici pubblici monumentali, le difese sono fornite dalle strutture naturali come i fiumi e le alture di origine alluvionale tra essi interposte, non c’è soluzione di continuità fra città e campagna. Attorno all’area urbana ci sono paludi e acquitrini e le pendici dei colli prospicienti a sud sono selvatiche.
Questi aspetti urbani cambiano con la romanizzazione. Un municipium deve avere – nella visione dei dominatori – un aspetto consono al suo rango e cioè strade ordinate e pavimentate, edifici pubblici, il foro, ponti, l’acquedotto e le mura.
Non c’è alcuna necessità, in realtà, di cingere la città con una cortina muraria perché la Venetia è da tempo pacificata e, con l’allargamento progressivo dei confini conseguente alla politica espansionistica dell’Urbe, non ci sono previsioni di attacchi esterni. A cosa servono, allora, le mura a Vicetia? Non hanno la loro funzione tipica, quella difensiva, e fungono, piuttosto, per definire l’area urbana e da cesura con quella agricola.
Molto probabilmente – sono solo ipotesi perché evidenze archeologiche non ce ne sono – non è costruita una cinta muraria completa attorno all’abitato ma solo alcuni tratti in corrispondenza della mancanza di difese geologiche. Tre lati della città sono protetti dal corso dei fiumi, mentre quello ovest è più esposto e il modesto dislivello fra il piano di campagna e le zone rialzate dell’abitato non è ritenuto sufficiente ad assicurare la difesa.
La Sovrintendenza Archeologica del Veneto, in una relazione del 2015, ne dà questa definizione: “il circuito difensivo romano, di forma tondeggiante ancora molto ben leggibile nel tessuto urbano, in quanto ripercorso da edifici che ne hanno inglobato o rimpiazzato i resti, perimetra i margini di un rialzo naturale, sul quale il centro urbano si sviluppò fin dall’Età del Ferro, originato dall’attività esondativa ed erosiva dei fiumi Astico-Bacchiglione e Retrone e tuttora da essi delimitato a nord-est e sud-est”.
Ed infatti è proprio a ponente del Centro Storico che sono stati ritrovati gli unici resti delle mura romane. O, meglio, le loro fondazioni, perché nei secoli successivi sono state utilizzate per sovrapporvi quelle alto medievali. Così scrive la Sovrintendenza: “proprio in contrà Mure Porta Castello 9, nel 1957, durante i lavori di costruzione della nuova sede della Associazione Industriali, è stato individuato uno dei rari tratti della cinta muraria di età romana, in mattoni sesquipedali, messo in luce per circa 10 metri di lunghezza e spesso m. 2,30-2,40”.
Altri resti sono rinvenuti, cinquant’anni dopo, in una zona limitrofa: “una serie di sondaggi condotta appena a più a nord, lungo il fronte occidentale di contrà Motton San Lorenzo, ha permesso di mettere in luce vari tratti della cinta, per la lunghezza complessiva di poco meno di 200 metri. Su un primo aggere (terrapieno, ndr) di età tardo-repubblicana si impostava la sottofondazione di una poderosa cortina, probabilmente identificabile col primo impianto difensivo della metà del I secolo a.C. e oggetto di ripristino in età alto imperiale; in seguito sui resti delle antiche mura si sovrappose esattamente la cinta alto-medievale e quella del X-XI secolo”.
Fatte le mura, ci si chiede quali fossero gli accessi all’abitato. Mancano, anche su questo aspetto, ritrovamenti archeologici, ma è ipotizzabile con minima approssimazione che fossero in corrispondenza degli ingressi del tratto urbano della Via Postumia (il “decumanus maximus”) e agli esiti del “cardo maximus” e cioè nelle attuali aree di Ponte Pusterla e di Ponte San Paolo.