Il 25 aprile, al da là dei comunicati stampa di cronaca e/o opinione che proponiamo sempre senza censura alcuna, se non quando sono in contrasto con i principi per noi sacri della Costituzione, VicenzaPiù ha pubblicato con firme nostre o di nostri opinionisti da noi indipendenti, quindi espressione di alcune parti piuttosto che di altre dei nostri lettori fidelizzati e/o fedeli ai valori di cui prima, 4 articoli: «25 aprile, Donazzan può scrivere le nefandezze che vuole contro l’ANPI perché i partigiani hanno sconfitto il nazifascismo» di Giorgio Langella, «Resistenza a Vicenza per 25 aprile e Coronavirus: cittadini nei luoghi simbolo, terrazze con Bella Ciao, “Silenzio” partigiano alla Ederle» di Edoardo Andrein, «25 aprile: viva San Marco! Esponiamo la bandiera perché siamo europei ed europeisti» di Ettore Beggiato e «25 aprile: io sto con la Brigata Ebraica offesa da frange ANPI e vi racconto… la discussa origine di Bella Ciao» di Paola Farina.
Narrazioni non di certo concordanti e perciò più interessanti da ospitare perché espressioni del nostro pluralismo ideale e perché tutte chiare, trasparenti, documentate e, soprattutto, rispettose della democrazia e del confronto civile.
Ecco in quei 4 articoli c’è tutta VicenzaPiù e, perciò, non mi è servito scrivere altro sul 25 aprile, ammesso che qualcuno fosse interessato a leggerlo, e mi son potuto occupare di un’altra questione in cui il nostro giornale mai molla: la liberazione dei cittadini dalla nuova oppressione delle banche.
Ma oggi, a chi avesse tempo, vorrei proporre tre articoli, uno di Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica, e due altri, che, però, fanno un tutt’uno, di Antonio Padellaro e Marco Travaglio, entrambi “fondatori” de Il Fatto Quotidiano e suoi direttori, prima Padellaro, ora Travaglio.
I tre articoli, di tre direttori spesso ruvidamente in polemica fra di loro ma sempre paladini della libertà di stampa, partono dalle vicende che hanno cambiato la proprietà di Repubblica, un segnale non proprio positivo nel mondo editoriale, e VicenzaPiù ne approfitta affidandosi alle loro “penne”, ben migliori e più acute delle nostre, per dirvi ancora che il loro giornalismo è il nostro faro a cui proviamo solo ad aggiungere qualche lampadina in… più, a volte utile, immodestamente, anche ai loro collaboratori, ma sempre ai nostri lettori.
P.S. Il 14 gennaio 1976 usciva il primo numero di La Repubblica, io riuscii a comprarla, allora vivevo a Roma, solo dal n. 2.
Sarà per questo, per non perdermene il n. 1, che fondai io stesso VicenzaPiù: la sua prima copia entrò in mio possesso, e la custodisco gelosamente, il 24 febbraio 2006, il giorno prima della sua apparizione in edicola.
Mentre i poteri forti di Vicenza già si erano scatenati contro il nostro periodico cartaceo (sul primo numero di VicenzaPiu analizzavamo l’allora emergente sudditanza dei sindacati a Confindustria, poi uscirono le prime inchieste “immobiliari” e, quindi, arrivò la rivelazione degli intrecci di potere locali, che ci causò il primo ostracismo del vignaiolo di Gambellara), il 19 dicembre 2008 rilanciavamo col nostro quotidiano online, Vicenzapiu.com.
Il 23 settembre 2009 andava, quindi, in edicola il n. 1 di Il Fatto Quotidiano, edito dai suoi giornalisti: lo comprai subito per intuizione e mi aiutò, forse nel momento più duro degli attacchi anche e soprattutto personali, ad avere la forza, io di fatto editore di me stesso, di continuare a informare i lettori, soprattutto su quello che gli altri non volevano, non vogliono e non vorranno che sappiano.
Un esempio? La cronaca della truffa della Banca popolare di Vicenza, mentre si svolgeva, degna figliastra del nostro primo articolo sul web: Recessione, vedi alla voce usura.
Basta con i ricordi ora, perché a breve di novità editoriali ve ne darà VicenzaPiù e il suo network, piccolo ma vario e… vivace con LaltraVicenza.it, ParlaVeneto.it, Bankileaks.com, e VicenzaPiu.Tv & Lapiù.Tv, e via con gli inchini ai maestri del giornalismo indipendente pur se di parte: quella della ricerca della verità.
Grazie.
Il direttore
Caro Marco
La conurbazione dei dividendi nel gruppo Gedi: che fatica guidare un quotidiano Giano e Mercurio editori di Stampubblica
Caro Marco, il 25 Aprile è la festa della Liberazione, e anche della Costituzione a cui abbiamo dedicato fin dal primo numero il nostro giornale. Rappresenta dunque un’occasione per chi fa il nostro mestiere: ricordare l’importanza dell’articolo 21 della Carta, presidio di quella libertà di stampa e di opinione che va difesa sempre e da ogni attacco. Vorrei farlo alla larga da quella retorica bolsa e pontificante che entrambi detestiamo, aiutandomi se ci riesco con il sorriso amaro dell’ironia. Quando, un secolo fa, facevo il mozzo nelle sentine del Corriere della Sera, il mio sogno (come tutti quelli alla catena) era di diventare un giorno direttore. Non certo della prestigiosa testata: presuntuoso sì, ma non del tutto stupido, consideravo modelli inarrivabili gli Spadolini, Ottone, Cavallari, Stille e le altre divinità che in quegli anni avrebbero poggiato le loro terga sulla cattedra adornata dalla maestosa (e forse ancora intonsa) Enciclopedia Treccani.
Oggi, se leggo che qualche bravo e stimato collega è stato nominato direttore di un grande quotidiano vorrei stringergli commosso la mano e dirgli che mi dispiace tanto. Tra un momento cercherò di spiegarti il perché. Prima di tutto però grande rispetto e stima, neanche a dirlo, per chi è stato chiamato alla guida di Repubblica e Stampa, firme di assoluto valore (con Massimo Giannini ho sempre sentito una certa sintonia di idee). Anche se non mi è chiaro per quale motivo sia stato cacciato Carlo Verdelli che bene aveva fatto, con il sostegno della redazione e dei lettori. Per carità, siamo nella normalità dei rapporti tra proprietà e direzione, e pur cercando di farmi i fatti miei ho provato, ti confesso, un certo smarrimento quando per saperne di più mi sono inoltrato, incoscientemente, nel comunicato dell’editore. Infatti, dopo qualche passo mi sono perso tra Cir, Gedi, Exor, Giano Holding, Mercurio, Sia blu. Poi, bloccato del tutto quando ho cercato di capire (ma non ho la testa per certe cose) come fa Exor ad avere il 60,9% del capitale e il 63,21% dei diritti di voto, con rassegnato sconforto ho atteso che Giano o Mercurio mi conducessero all’uscita. Improvvisamente ho avuto come un’apparizione: non era la Madonna, ma un giovane uomo dall’aria cordiale e sorridente. Si chiama John Elkann mi ha spiegato Gedi, ed è il presidente molto umano di questa meravigliosa conurbazione di dividendi che a te (a me) che non capisci niente appare come un dedalo inestricabile di accomandite e società di diritto. E dove posso trovarlo, chiesi timidamente? Ad Amsterdam, e anche a Londra, e anche negli Stati Uniti, disse Sia blu con la soavità di chi deve spiegare a un non vedente i misteri della Luce: in quel preciso istante finalmente compresi il fenomeno della transustanziazione dell’editore. Qui, caro Marco, vengo al punto. Che mestiere è diventato oggi quello del direttore che ogni giorno, oltre alla fatica di fare il giornale, di combattere con la crisi delle edicole, di confrontarsi con le giuste preoccupazioni dei colleghi, non sa più a quale holding votarsi? Lo chiedo a te con il leggero rimorso di chi cinque anni or sono ti passò il testimone sapendo che saresti imbiancato precocemente. Ma anche con la serena consapevolezza che il nostro amato brigantino Fatto Quotidiano, non sarà mai di proprietà di alcune figure mitologiche con triplo domicilio fiscale. Questo, come vogliamo chiamarlo, apologo della realtà mi è sembrato il modo più giusto per celebrare il mio, il nostro, 25 Aprile.
Maledetto Antonio
di Marco Travaglio da Il Fatto Quotidiano 25 aprile 2020
Caro Antonio (ma dovei dire maledetto Antonio, visto che questa condanna della direzione me l’hai inflitta tu, cinque anni fa, con tutte le pene accessorie), il tuo smarrimento è anche il mio. Anche se ti confesso che l’altra sera, preso com’ero a capire se nel vertice europeo avesse perso Conte (come sostenevano i patrioti Salvini & Meloni) o avesse vinto Macron (come sostenevano i patrioti Innominabile & Boschi), mi son perso l’imperdibile nota sul giro di direttori in casa Gedi, che peraltro mi ha sempre fatto pensare a un personaggio del bar di Guerre Stellari. Sì, nel nostro piccolo siamo fortunati e lo sono anche i nostri lettori. Che ci conoscono da almeno 10 anni, o addirittura da prima, quando il Fatto non esisteva, ma noi già facevamo danni qua e là. E ci prendono per quello che siamo: una ciurma di bucanieri e gianburrasca che si divertono a scovare notizie e a rompere i coglioni a chiunque lo meriti, senza prendersi troppo sul serio anche quando conducono battaglie molto serie. Sanno chi siamo, coi nostri pregi e i nostri difetti, i nostri meriti e i nostri errori, senza mai intravedere dietro di noi Qualcuno che – da palazzi o terrazze o salotti o logge o partiti o banche o cantieri o aziende o multinazionali o paradisi fiscali – ci dica cosa scrivere e cosa non scrivere. E senza mai temere che un giorno arrivi un nuovo padrone a imporci la sua “linea”. Snaturando la nostra.
Ed è un bel fardello di responsabilità, perché tutto quel che esce sul Fatto, nel bene e nel male, è farina del nostro sacco: merito nostro o colpa nostra. È il nostro modo – lo dico sottovoce per non indulgere alla retorica né perdere il senso della misura – di onorare quella Costituzione che abbiamo scelto come unica linea politica nell’editoriale che tu firmasti sul nostro primo numero, il 23 settembre 2009. Quella Costituzione di cui oggi, 25 Aprile, festeggiamo i genitori: i partigiani della Liberazione. Io sono sempre stato un solista e non ho mai pensato di fare il direttore, né ho mai brigato per farlo. Ma riesco a farlo, da dilettante del ramo, soltanto grazie al fatto che il nostro editore siamo noi e i lettori: se ricevessi ordini da ectoplasmatiche “conurbazioni di dividendi”, non ce la farei proprio a obbedire, portato come sono a fare l’esatto contrario di quel che mi viene detto. Quindi ringrazio i lettori e gli abbonati di averci mantenuti in salute e in grazia di Dio. E la cosiddetta “concorrenza” di spalancarci oceani di conformismo, censura e autocensura da solcare col nostro vascello corsaro.
Pensa, Antonio, che te lo sussurro all’orecchio, per scaramanzia – in queste settimane di arresti domiciliari al 41-bis per tutti gli italiani, le nostre vendite in edicola sono persino aumentate, abbiamo raccolto 12 mila nuovi abbonamenti digitali e le lettere al Fatto si sono moltiplicate per dieci. Un premio a tutta la redazione e ai collaboratori che lavorano in condizioni difficili, spesso proibitive. Fra pochi giorni annunceremo importanti novità in casa nostra, che riguardano il giornale, la sua veste grafica e una serie di nuove iniziative per affrontare il mondo nuovo post-Covid all’insegna di una vera normalità, cioè di un autentico cambiamento, onde evitare che qualcuno ci riporti alla falsa normalità di prima, quando di normale accadeva ben poco. In questi momenti di disorientamento, mi capita spesso di immaginare che cosa direbbe Indro Montanelli se fosse vivo. Così apro a caso uno dei suoi libri, o vado sul sito della Fondazione Montanelli che ogni giorno distilla una sua perla, e trovo compagnia. E, a proposito di cambi di direzione, mi sono imbattuto nel suo commiato a noi redattori del Giornale l’11 gennaio 1994, quando ci annunciò che se ne sarebbe andato a fondare La Voce per le intromissioni di B. prossimo alla discesa in campo: “È un po’ tardi, ma alla fine mi sono convinto che di padroni non bisogna averne. Perché, anche quando cominciano bene, finiscono male… La libertà… non consiste nell’avere un padrone giusto, ma nel non averne alcuno”.