Suffragio universale: per il diritto di voto un test di comprensione di uno scritto? E si dimentica il voto dei disabili

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Winston Churchill contro il voto a suffragio universale
Winston Churchill contro il voto a suffragio universale

Qualche giorno fa mi è capitato di sentire su una radio nazionale una serie di interventi degli ascoltatori sul tema del suffragio universale e tra chi sosteneva le necessità di abbassare a sedici anni il diritto di voto, chi proponeva di dare valore doppio al voto dei genitori di figli minorenni, un intervento mi ha colpito in particolare.

Si trattava di un’osservazione fatta proprio da un vicentino, il quale proponeva di istituire un test di comprensione per tutti i soggetti in età adulta per valutare la capacità di comprendere un messaggio scritto. Ovviamente, proseguiva l’ascoltatore, il test sarebbe stato funzionale all’attribuzione della facoltà di voto, giacché un analfabeta funzionale non dovrebbe avere un tale potere.

Ora, la prima cosa a cui ho pensato è che l’eventuale situazione di conclamato analfabetismo funzionale, problema di cui pare solo oggi ci siamo accorti e che, tuttavia, funziona più come un’accusa, una condanna in via definitiva che come situazione pedagogica superabile, potrebbe avere il rischio di ridurre definitivamente alcune persone nel novero della demenza, fino al punto da ritenerle giuridicamente interdette, procedendo alla nomina di un tutore, misure che si prendono, ad esempio, per le persone con disabilità psichica. Ecco, ma del voto delle persone con disabilità psichica si è mai preoccupato qualcuno?

Forse non tutti sanno che dal 1978, con la famigerata Legge 180, voluta dallo psichiatra Franco Basaglia, venne istituito il diritto di voto per i disabili che siano stati interdetti, con lo scopo di integrarli nella vita lavorativa, circostanza che veniva impedita con l’assenza di diritto di voto. Tuttavia, a causa della mancanza di informazioni alle famiglie e di oggettive difficoltà di esercizio di tale diritto, la reale fruizione resta perlopiù formale e non sostanziale, come evidenziano le associazioni delle persone con disabilità.

Sicché, anche in questo caso, coerentemente con il retropensiero di concedere un ulteriore voto per ciascuna figlia o figlio minorenne, circostanza non specificata nel relativo intervento, si dovrebbe probabilmente lasciare la possibilità alle mamme, ai papà e alle persone che si prendono realmente cura per tutta la loro vita delle persone con disabilità di avere un maggiore peso politico, giacché si tratta della responsabilità di costruire un mondo in cui queste persone possano essere a loro agio e godere di piena solidarietà.

A parte queste considerazioni futuristiche, non del tutto originali a dire il vero, subito dopo un altro dubbio mi ha assalito: ma cosa c’entra il voto con la comprensione dei messaggi di testo? Perché la comprensione di un testo, magari un passo tratto da La misteriosa fiamma della regina Loana di Umberto Eco, dovrebbe essere determinante per decretare se si ha la facoltà di mandare un delegato in Parlamento per rappresentarmi? È così fondamentale capire un testo scritto per scegliere il rappresentante migliore?

Forse è così, anzi sicuramente la comprensione di un messaggio scritto agevola la lettura dei fenomeni sociali e politici, tuttavia bisogna ammettere che molta politica passa attraverso messaggi orali, formulati non linearmente come testi narrativi, ma attraverso espressioni che assumono la forma linguistica della promessa, dell’appello accorato, della previsione futuribile, della condanna ideologica, dell’invettiva rabbiosa, della difesa retorica, perfino della preghiera all’Immacolata, quando non diventa uno sciorinare di dati e percentuali, vere o false è un altro paio di maniche.

Il punto è che in questi casi non c’è nulla da capire, la dimensione della comprensione semplicemente non è chiamata in causa, ma si tratta solo di sentire e non con le orecchie, o meglio, non solo con le orecchie. Senza venire meno al compito di educare i giovani e i meno giovani alla lettura e all’ascolto, affinché nessuno sia mai condannato, suo malgrado, a forme di analfabetismo, dovremmo predisporre la nostra comunità a sentire l’altro per empatia, nella consapevolezza che la definizione del campo di applicazione di tale capacità di sentire è una variabile storica, fortemente dipendente dalle «manipolazioni», vale a dire dai dispositivi di potere che vengono adottati a livello politico.

E il veicolo di tale manipolazione non può che esser il linguaggio di uso quotidiano che, nel tentativo di ordinare il mondo, lo classifica, lo gerarchizza sulla base di pregiudizi nascosti, sottaciuti, politicamente impliciti. Il sociologo Peter Berger scriveva qualche tempo fa: «Nel corso della storia i limiti degli obblighi reciproci si sono ripetutamente spostati portando a un’inclusione a volte più ampia, a volte più ristretta». Noi dobbiamo lavorare alacremente e responsabilmente per attivare percorsi di educazione all’empatia al fine di rendere le maglie dell’inclusione sociale e culturale sempre più ampia, senza pregiudizi e senza compiere passi indietro nel percorso progressivo verso la valorizzazione della dignità umana, circostanza che, occorre ricordarlo a scanso di equivoci, rimane attaccata ad ogni essere umano sin dalla sua nascita, proprio come dovrebbe essere il diritto di voto.