Le recenti regole Ue sul credito non depongono a favore della coesione europea. Di fronte alla sfida dell’integrazione bancaria, ancora una volta l’Unione ha deciso di non decidere per una ragione semplice: alcuni Stati, Germania in testa, hanno un’economia reale più solida e rischi creditizi assai più limitati di quelli del Mediterraneo come l’Italia. Dunque, se a causa del coronavirus si dovesse concretizzare l’apocalisse ipotizzata dalla Bce, con la triplicazione delle attuali sofferenze bancarie a 1.400 miliardi, i Paesi forti non condividerebbero l’onere di quelli fragili.
Dopo un graduale miglioramento negli ultimi anni, a causa del Covid i crediti deteriorati (Non performing loans, Npl), delle banche europee hanno registrato un’inversione di tendenza a causa di nuove insolvenze. A giugno nelle banche Ue, al lordo degli accantonamenti, erano saliti a 588 miliardi dai 585 del primo trimestre, ma ancora sotto i 646 miliardi di fine 2019. La percentuale degli accantonamenti sui rischi di credito è migliorata nel secondo trimestre 2020, con la media Ue attestata al 63,4% (su 100 euro prestati, copro la perdita su 63,4), in crescita del 4,5% su base annua. A giugno 2020, gli Npl delle banche italiane ammontavano a 138 miliardi, 67 al netto delle coperture: erano 356 (191 netti) a giugno 2016. Le sole “sofferenze” (i crediti inesigibili) nette sono calate da 88 a 27 miliardi spesando perdite e vendendo portafogli di Npl per oltre 200 miliardi negli ultimi cinque anni.
Ora si riparte. Il 12 ottobre Andrea Enria, capo della vigilanza della Bce, ha detto che “in uno scenario grave con una seconda ondata di contagio potrebbero esserci fino a 1.400 miliardi di crediti inesigibili”. Un’analisi datata 16 dicembre di Mediobanca Securities ha calcolato che se ciò avvenisse significherebbe che il 9% dei crediti bancari Ue sarebbe a rischio, erodendo di 4 punti percentuali il capitale di vigilanza degli istituti. Questo innescherebbe una spirale di svalutazioni e perdite che colpirebbe la redditività delle banche, già ai minimi in Italia. Secondo l’analisi dell’Autorità bancaria europea sui bilanci al 30 giugno di 135 banche, tra cui 11 italiane, solo Mediobanca e Intesa Sanpaolo avevano un rapporto costi/ricavi sotto la media Ue del 66,6%, mentre Mps e UniCredit – i due istituti che il Tesoro vorrebbe fondere – svettano con l’86,9% e l’82,2%.
Secondo la Bce, a giugno le sofferenze lorde per le banche italiane erano pari al 6,3% dei crediti, a fronte della media Ue del 2,8%, con la Germania all’1,2%. Nel solo settore privato, in Italia le sofferenze erano all’8,2%, in Germania al 2. Gli accantonamenti per rischi su crediti degli istituti italiani valevano il 59,8% dei prestiti dubbi, in Germania l’89. Se le banche italiane volessero portare le loro riserve al livello delle concorrenti tedesche, dovrebbero mettere da parte 40 miliardi. Un onere insostenibile, che spingerà inevitabilmente a nuove vendite di crediti deteriorati a operatori privati o a una bad bank pubblica. La riscossione avrà pesanti effetti sui debitori, sulla tenuta sociale e sull’economia nazionale.
Il 16 dicembre la Bce ha rinnovato le limitazioni imposte alle banche sulla distribuzione di dividendi, raccomandando che gli istituti conservino capitale a sufficienza per supportare l’economia reale e assorbire le perdite. Lo stesso giorno, nella sua comunicazione sull’impatto del Covid sulle sofferenze bancarie, la Commissione Ue ha definito una strategia per lo sviluppo di mercati secondari per i crediti deteriorati e la revisione delle norme sull’insolvenza e il recupero crediti. Bruxelles però non ha voluto creare una bad bank europea ma punta su una rete di bad bank nazionali. Ogni Paese, insomma, dovrà risolvere da sé i propri problemi e sopportare le relative perdite. Il rischio concreto per gli Stati del Sud è che la riscossione dei loro Npl divenga un grande affare per gli operatori calati dal Nord.
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